Israele-Palestina, terrorismi che si autoalimentano.
19 aprile 1956, Roi Rutemberg, membro del kibbutz Nabal Oz al confine con Gaza, viene crudelmente assassinato da palestinesi provenienti da Gaza. Moshe Dayan, capo di stato maggiore israeliano, nell’orazione funebre, dice che non si sarebbe dovuto dare la colpa agli assassini. Era naturale che odiassero gli israeliani: “Per otto anni sono stati confinati nei campo profughi di Gaza, e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi, dove loro e i loro padri abitavano, in nostri possedimenti”. La responsabilità dell’accaduto è piuttosto di chi in Israele ha chiuso gli occhi e non ha compreso quello che “ è il destino della nostra generazione: essere preparati e armati, forti e determinati, affinché la spada non venga strappata dal nostro pugno e le nostre vite non vengano stroncate”. Queste parole rimandano a Jabotinsky, uno dei fondatori del revisionismo sionista, che, cosciente che “ ogni popolo indigeno resisterà ai coloni stranieri finché potrà nutrire la speranza di rendersi libero”, sosteneva la necessità per il sionismo di costruire con la forza militare “un muro di ferro che loro (i palestinesi) non avessero la capacità d’infrangere”. Questo episodio, riportato tra gli altri dagli storici israeliani Anita Shapira e Shlomo Sand, mi è venuto in mente leggendo, nell’anniversario del massacro del 7 ottobre, l’editoriale del direttore del quotidiano Domani, Emiliano Fittipaldi. Il giudizio di Fittipaldi è netto: “ male assoluto”, un “ pezzo di Shoah in Terra Santa, un una raccapricciante caccia all’ebreo”, “un’empietà che non può essere normalizzata da richiami al –contesto- “. A parte l’espressione “male assoluto” che non si capisce bene cosa significhi, non esiste azione o situazione che possa essere valutata e capita (che non vuol dire giustificata) indipendentemente dal –contesto-. Ed è proprio questo ciò che aveva capito Dayan e che, tanti, troppi, commentatori ignorano. Parlare di “Ebrei massacrati in quanto ebrei”, evita la fatica di analisi complesse, ma soprattutto evita di esporsi a critiche in un momento in cui troppo facilmente ogni critica al sionismo e a Israele viene bollata di antisemitismo. L’attacco del 7 ottobre è stato certamente un atto criminale, da condannarsi senza alcuna possibilità di “normalizzazione”. Ma la condanna, per quanto netta, non ci esime dal cercare di capire il senso e le motivazioni; altrimenti la stessa azione del condannare rimane un’azione sterile, incapace di portare a un vero cambiamento. E capire un conflitto lungo oltre un secolo, che ha visto diverse fasi. Una prima di progressivo insediamento di una popolazione dall’Europa e di conseguente marginalizzazione di quella originaria. Molti parlano a questo proposito, non a torto, di “colonialismo di insediamento”. Successivamente una fase, la guerra d’indipendenza dello Stato di Israele, che è stata, razione di pulizia etnica con la distruzione di oltre 400 villaggi palestinesi e l’espulsione di oltre 700 mila palestinesi da quello che alla fine della guerra sarebbe diventato lo Stato di Israele. Infine, dopo il 1967, con la guerra dei 6 giorni, l’occupazione di tutta la Palestina, che ha portato alla situazione attuale, che è, nei fatti, una realtà di apartheid. Negli ultimi due anni, con la partecipazione al governo dei partiti di destra più oltranzisti e razzisti, si è avuta una significativa crescita del numero dei coloni nella Cisgiordania, con un corrispondente aumento della violenza contro la popolazione palestinese. E in effetti, come spiega lo storico israeliano Yaniv Ronen in una intervista su Haaretz del 10 ottobre 2024, la decisione di Hamas di realizzare il 7 ottobre 2023 il piano di attacco al confine sud di Israele, un piano peraltro concepito e messo a punto già nel 2014, dopo l’operazione Protective Edge dell’esercito israeliano a Gaza, nasce proprio dal livello del confronto in Cisgiordania piuttosto che dalla situazione di Gaza. In particolare, Ronen fa riferimento all’intenzione di cambiare lo status di quel luogo che gli arabi chiamano Spianata delle Moschee e gli ebrei Monte del Tempio, da parte di esponenti del governo israeliano. I questa direzione vanno gli inviti agli ebrei perché vadano a pregare lì, da parte del ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir, leader di Otzama Yehudit, un partito estremista anti arabo. Ben Gvir fa parte del Movimento del Monte del Tempi, il cui obiettivo è proprio quello di una riappropriazione della spianata delle oschee e della costruzione lì di un nuovo tempio, il terzo dopo la distruzione del secondo da parte dei Romani nel 70 d.C. nell’intervista Ronen sostiene poi che il confronto sarebbe scoppiato soprattutto per un piano, sostenuto dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che prevede l’annessione di tutta la Cisgiordania, ai cui abitanti verrebbe lasciata la scelta fra cittadinanza di seconda classe ed esilio. Un piano formulato prima della nascita dell’attuale governo di Netanyahu, ma che è diventato particolarmente preoccupante dopo che a Smotrich è stata affidata nel governo la responsabilità sugli affari civili dei territori occupati.
Come viene spiegato nel rapporto del settembre 2023 (“ I progrom funzionano, il trasferimento sta già avvenendo”) di B’Tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, “ Israele si adopera per rendere impossibile la vita dei residenti delle comunità situate nelle aree di suo interesse” con l’obiettivo di costringerli a lasciare case e terre. Questo avviane attraverso strumenti legali e amministrativi quali sfratti, rifiuto dei permessi per costruire, demolizioni, e difficoltà all’accesso dei servizi, in particolare acqua ed elettricità. Ma, sempre di più, anche garantendo l’immunità, se non il supporto militare diretto, ai coloni che usano violenza contro i palestinesi per cacciarli dalle loro terre e case. Questo ha portato fra il 2022 e il 2023 alla cancellazione di ben sei comunità palestinesi. È proprio in questa realtà l’origine del progrom del 7 ottobre, come sostiene Hamas nel suo documento La nostra narrazione, pubblicato in inglese all’inizio di questo anno. In questo documento Hamas si presenta come un movimento di liberazione nazionale del popolo palestinese. L’attacco del 7 ottobre, come, per altro, ci si sarebbe dovuto aspettare, ha ulteriormente e drammaticamente peggiorato la vita dei palestinesi della Cisgiordania. E questo anche per il fatto c l’attenzione dei media si è concentrata soprattutto su Gaza. Nell’ultimo anno ci sono stati in Cisgiordania almeno 730 palestinesi uccisi, di cui 165 minori, e 624 attacchi a cliniche e ospedali, anche con uso di aerei. È in corso da parte dei coloni un’azione per spingere i palestinesi a fuggire o, per lo meno, a lasciare le campagne concentrandosi nei centri abitati. Questo permetterebbe di confiscare ulteriore terra e di espandere gli insediamenti, confinando la popolazione palestinese in poche cittadine o villaggi ai quali si potrebbe dare una limitata autonomia. Si otterrebbe quello che era già stato prefigurato nelle trattative che hanno portato agli accordi di Oslo: “ Enclave di autogoverno palestinese in un mare di controllo israeliano”. Significativo quello che è accaduto a Ibraheem, figlio di Noah Al Khnoor, il pacifista che ci ha accolto al campo profughi di Deheishe vicino Betlemme in occasione del nostro primo viaggio di conoscenza in Palestina. Dopo una laurea in Scienze per la Pace all’Università di Pisa, seguita da una breve permanenza negli USA, Ibraheem ha deciso di tornare in Cisgiordania iniziando una attività di apicoltura. Una forma di Sumud , un resistere in modo non violento ai coloni che con la violenza e le minacce cercano di rendere la vita impossibile ai palestinesi e di spingerli a emigrare. Pochi giorni fa mi ha scritto che i coloni ebrei hanno appiccato il fuoco a un bosco vicino a casa sua, e 45 delle sue arnie, con le api che contenevano, sono andate in fumo. Questo certamente non scalfisce la sua determinazione, ma dà un’idea di come sia difficile lavita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata. L’attacco di Hamas non solo non ha ridotto il livello della violenza che i palestinesi subiscono, ma lo ha aumentato oltre ogni immaginazione. Siamo in questo momento spettatori di uno scontro fra due terrorismi, quello di Hamas, che ha come obiettivo la liberazione nazionale del popolo palestinese, e quello del governo israeliano, un terrorismo di un ordine di grandezza più feroce, il cui obiettivo è rendere impossibile la realizzazione di questa liberazione, un obiettivo nei fatti genocida. Se ben guardiamo si tratta alla fine di terrorismi in un certo senso fine a se stessi. In un articolo dal titolo Per il governo di Netanyahu, la partita finale della guerra è la guerra, lo scorso 30 settembre l’editorialista di Haaretz, David Issacharoff ricorda come Itamar Ben-Gvir avesse minacciato di far cadere il governo se Netanyahu avesse cercato di ottenere un cessate il fuoco in Libano, rivelando così “ una realtà oscura: la guerra è ciò che mantiene in vita il governo israeliano”.
Tutto questo conferma ciò che aveva ben capito Gandhi, che la distinzione fra mezzi e fini rischia di essere artificiosa, e che “alla fine i mezzi sono tutto”. I mezzi non solo cambiano i fini, ma cambiano anche le persone, cioè le stesse parti in conflitto. È del tutto illusorio pensare che la guerra possa produrre la pace. Può portare a una vittoria, alla sconfitta del nemico e alla cessazione delle ostilità. Vittoria e cessazione delle ostilità mai definitive. Prima o poi riprenderanno, come la storia ci insegna. La pace, una vera pace, è qualcosa di diverso. Non è solo l’assenza di guerra, ma una realtà che garantisca, almeno potenzialmente, pienezza di vita per tutti e tutte e anche, come ormai credo dovremmo aver capito, per la natura. Avremo pace, ci sentiremo sicuri non quando saremo più forti, ma quando nessuno avrà motivi per attentare alla nostra sicurezza. Lo aveva intuito anche un uomo di guerra come Moshe Dayan, citato all’inizio dell’articolo.
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