Religioni e pace: un binomio difficile
In che modo le religioni riflettono sulla pace? Affermandola, propugnandola, elevandola a valore o, viceversa, contrastandola e vanificandola incoraggiando e giustificando guerre e conflitti? È una domanda senza tempo, che comporterebbe un lungo giro d’orizzonte, a cercare di dipanare la matassa infinita delle relazioni umane. Proviamo a farlo in breve, questo giro, ragionando in termini generali.
Tutte le società umane sono caratterizzate da una propria identità, costituita da storia, tradizioni, memorie che affondano le radici nel passato e si propagano nel tempo. Di ogni tipologia di gruppo si possono poi identificare regole, modalità organizzative, comportamenti. Ogni gruppo, che sia grande o piccolo, dalla tribù nel villaggio più sperduto agli Stati nazione caratterizzati da una qualche omogenea unitarietà, pensa a se stesso come unità o isola in un grande mare o come stella in una immensa costellazione. Pensa cioè a se stesso e guarda il mondo dal proprio centro, che è quello in cui ciascun individuo nasce e cresce, accompagnato da una educazione, da una serie di istruzioni, dall’acquisizione di saperi. Fra questi saperi ci sono anche quelli religiosi, che non sono affatto di secondaria importanza.
Il vivere in una società secolarizzata e, per molti versi, religiosamente disimpegnata non deve farci dimenticare che al contrario i valori religiosi sono la colonna vertebrale di tante esistenze, di tanti gruppi e infine sono una componente fondamentale del vivere civile. Ovunque esse siano e comunque siano formulate, le modalità di esplicazione religiosa implicano un profondo attaccamento a ciò che ciascuno crede e ritiene vero per sé e per la propria comunità. Ciò significa, quindi, che il nostro stesso sguardo deve tenere conto non già di come possiamo intendere questo rapporto in base alla nostra esperienza, ma di come il religioso è sentito altrove, da persone con apparati di conoscenze, di valori, e simboli che molto difficilmente riusciamo a decrittare e comprendere. In base a questo sfondo, dunque, uno sguardo alle religioni plurali si sovrappone a quello sulla pluralità delle culture e delle appartenenze, che comprende la varietà umana nella sua articolata complessità. Una ulteriore stratificazione è data dagli Stati nazione, che rappresentano, con tutte le criticità che hanno determinato a livello globale la definizione dei confini e delle frontiere, un livello di tipo politico (al tempo stesso economico e territoriale), che interseca i due precedenti, quello religioso e quello culturale, per costituire un elemento trasversale della organizzazione umana a livello globale. Lungo questa triplice linea di definizione corrono allora diverse tipologie di conflitto, che a volte si sovrappongono e a volte si riferiscono a singoli livelli di avvicinamento e frizione fra faglie.
Il ruolo delle religioni può essere di diverso genere: può essere elemento scatenante del conflitto; oppure fattore aggiunto, come motivazione collaterale, che si aggiunge ad altri livelli di causa e di obbiettivo; oppure rappresentare un effetto del tutto collaterale. Partendo da quest’ultimo scenario, si deve riflettere di converso: le religioni, in situazioni di conflitto, possono accentuare la propria valenza identitaria e, conseguentemente, alimentare le ragioni del conflitto e contribuire con il proprio apparato valoriale, con l’esempio, con la propria elaborazione simbolica, a giustificare la guerra. Oppure assestarsi su una posizione di no belligeranza, di difesa della persona umana in quanto tale, di promozione di valori di relazione ed evocare e mettere in pratica una propria missione, iscritta già nei sacri testi e tramandata nel tempo, a favore della pace e contro le ragioni della guerra. Chi scrive ritiene che comunque non vi siano ragioni per un conflitto e che, anzi, qualsiasi conflitto sia costruito sulla sostanziale irragionevolezza cui l’umanità si lascia andare. E tuttavia questo tipo di approccio non è scritto nei testi sacri, non è garantito da una lunga tradizione, ma è, semmai, il frutto di una rielaborazione recente.
Andiamo con ordine: le guerre sono state eventi e atti comuni dell’intera storia dell’umanità. Per quanto ci si voglia rappresentare momenti pacifici, tuttavia nessuna epoca e nessun territorio è rimasto escluso da conflittualità che restano scritte nella memoria condivisa. La storia valorizza bensì anche la pace, ma come elemento di limitazione della guerra, come ristabilimento di una convivenza pacifica o di un buon vicinato. La violenza resta sullo sfondo di una società da riparare e ripristinare secondo forme di equilibrio e costruzione di una pace positiva. Lo scatenarsi di un conflitto comporta quindi sia la valorizzazione dello scontro e della violenza, sia la possibilità opposta e decisamente più sfidante e necessaria di un riconoscimento dei valori pacifici, inclusivi del diritto di ognuno di realizzare in buone condizioni i propri obiettivi esistenziali. Le religioni possono quindi propendere verso questa seconda opzione e lo fanno rivedendo la propria storia sacra alla luce anche della trasformazione della società nel tempo, della riplasmazione del proprio stare nel mondo, della necessità pressante di identificare risposte nuove alle nuove esigenze del tempo.
Così come in passato le guerre hanno funestato le relazioni umane, altrettanto avviene oggi: assistiamo a conflitti devastanti, in cui la popolazione civile è la prima vittima di violenze, uccisioni, genocidi. “Le religioni sono vie di pace”. Falso! Sosteneva in un significativo saggio di qualche anno fa Paolo Naso. Secondo questo studioso la palla passerebbe alla politica, perché le religioni, nella storia, hanno dimostrato di non sapere fare la pace. Invece si deve tenere conto del fatto che un enorme lavoro viene svolto dalle comunità religiose a livello globale: per ricostituire il senso del tempo, per fornire letture che affermino la necessità e bontà della pace contro qualsivoglia istanza militarista, imperialista, colonialista. Si dovrebbe provare a guardare con un’attenzione mirata alle parole di pace pronunciate dai leader religiosi a livello globale, per capire come e qualmente il ruolo delle religioni possa e debba cambiare nella storia futura, possa e debba riformularsi fin dal drammatico presente che stiamo vivendo a cui non possiamo né dobbiamo rischiare di assuefarci. Oltre alle parole dei leader si dovrebbero ascoltare quelle delle comunità abituate alla convivenza e alla relazione interconnessa: siamo tutti insieme su questo Pianeta e se la storia non attribuisce a religiosi e religiose un ruolo di guida nello stabilire la pace, non è affatto detto che questo ruolo non stia emergendo e facendosi largo fra le tante esigenze di oggi. Le testimonianze del presente, travolto dalle violenze e dalle guerre, vanno anche in questo senso e fanno sperare in una presa di responsabilità. Trovare nel passato la giustificazione perenne del presente serve anche a dire di no alle guerre, ovunque siano combattute, per affermare la dignità e il valore della persona umana.
Alessandro Saggioro. Professore Ordinario di Storia delle religioni all’Università La Sapienza di Roma.
(31)