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No other land: perché la terra è casa.

La telecamera, per Basel, non è un attrezzo di lavoro e neppure un passatempo. È l’unico, fragile strumento di resistenza e di difesa, per lui e la sua comunità. Quando non resta altro che esporre il petto ai fucili, con il colpo che può partire in qualsiasi momento, l’unico modo per non rendere tutto inutile è girare un video, mostrare senza filtri, con i soliti limite dell’inquadratura, quanto sia inumano, inaudito e persino, paradossalmente, irreale ciò che succede nella realtà. Si rischia la pelle o magari l’arresto, ma quelle immagini traballanti, concitate, inequivocabili, sono l’ultima speranza per lui e la sua gente. Basel lo ha capito sin da piccolo, guardando i primi video amatoriali registrati da suo padre e da altri attivisti. Testimoniare, essere gli occhi di chi non è qui, far conoscere a quante più persone possibili la drammatica situazione di un popolo che non vuole abbandonare la sua terra, l’unica che ha.

No Other land è un documentario del 2024 diretto da un collettivo israelo-palestinese composto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor, e ha vinto, inaspettatamente, l’Oscar come miglior documentario 2025. Il film racconta la resistenza della comunità palestinese di Masafer Yatta, un insieme di 19 villaggi nel sud della Cisgiordania, minacciati di demolizione e sgombero da parte dell’esercito israeliano, che ha dichiarato l’area zona di addestramento militare dal 1980. 

In realtà, quello delle esercitazioni militari, rivelano gli autori del documentario, è un alibi utile a fornire una parvenza di legalità. Lo scopo vero è scoraggiare l’espansione degli insediamenti e spingere la popolazione palestinese ad abbandonare la zona, perché possa essere occupata dai coloni ebrei. Demolizioni continue di case e scuole, rastrellamenti, controlli asfissianti e un sistema di vero e proprio apartheid non hanno però piegato la volontà degli abitanti. Famiglie che hanno visto le proprie case accartocciarsi sotto le ruspe, si adattano a vivere nelle grotte pur di non lasciare la propria terra. l’esercito demolisce di giorno e i palestinesi ricostruiscono di notte. Così, da quasi cinquant’anni, in mezzo a continue sofferenze. 

Molto del materiale utilizzato per il documentario è quello girato in diretta durante le demolizioni o le azioni di repressione da parte di Idf e coloni. Sequenze, come detto, concitate, ansimanti, imperfette e proprio per questo autentiche e capaci di restituire tutta la drammaticità dei fatti. A queste si alternano altri momenti, costruiti con mano sapiente e belle immagini, in cui si racconta la quotidianità della gente di Masafer Yatta. Una vita che cerca di essere “normale”, con le sue routine famigliari, i momenti di convivialità e anche di buonumore, ma in cui è impossibile sfuggire dalla realtà. Le grotte, rese il più possibile confortevoli, dove si coccolano i bambini, la mamma che avverte il figlio di aver fatto il bucato, cos’ se l’arrestano avrà tutto pulito, la sorella che prende in giro il fratello dormiglione, sempre il primo però a saltar su quando arriva l’esercito. Momenti in apparenza distesi, su cui aleggia una sola sofferente volontà. Resistere. Nient’altro. Per Basel e per tanti come lui, resistere è l’unica prospettiva, che si è ingoiata tutto il resto: studi, lavoro, sogni di famiglia. La sua vita di trentenne palestinese si specchia in quella di Yuval Abraham, un suo coetaneo israeliano. Giornalista di opposizione, rappresentante di quella parte di popolo israeliano che è contraria alle politiche repressive e all’occupazione, è uno dei quattro autori del film. Ha incontrato Basel mentre scriveva articoli sulle demolizioni e il documentario ci racconta come sia nata la loro asimmetrica amicizia. Il palestinese che vive in una grotta insieme a madre e fratelli, uno dei quali pralizzato da un proiettile sparato da un soldato, che non può viaggiare in tutte le strade, che non può andare in certe zone; l’israeliano, invece, libero di tornar, in pochi minuti, a casa propria. Nei loro dialoghi notturni, nelle conversazioni con altri palestinesi, si avverte in pieno il peso e l’imbarazzo che accompagna Yuval, perché è difficile scindere la propria buona volontà e storia personale dalle responsabilità collettive del mondo da cui si proviene e nel quale comunque si può sempre tornare. 

La narrazione segue Basel nel momento di massima popolarità sui media  main stream statunitensi a cui arriva grazie ai social network, e poi attraverso varie vicissitudini familiari, l’abbattimento della casa, il ferimento del fratello, la fuga per non essere arrestato, l’imprigionamento del padre al posto suo, la liberazione. Il film termina qui, sull’orlo dell’abisso, pochi giorni prima del 7 ottobre. In una specie di rapido post scriptum, vediamo ciò che accade dopo quella data: in una sequenza presa da lontano, lo zio di Basel viene ucciso con una fucilata da un colono, durante un’incursione. Una didascalia avverte che le demolizioni si sono intensificate nell’ultimo periodo. No Other Land  ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino e l’Oscar 2025 come miglior documentario. Con merito, perché, oltre al valore civile, politico e umano, è anche un bel film, ben raccontato, con un assemblaggio ben riuscito di stili e materiali diversi, che documenta un momento preciso ma trascende l’attualità e diventa vicenda umana, storia che troppe volte si ripete.

Difficile chiedere di più ad un documentario.

Regia: Base Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal, Rachel Szor.

Riccardo Iacopino. Regista e sceneggiatore.

(Mentre stiamo per pubblicare l’articolo, è arrivata la notizia dell’uccisione di Awdah Hathaleen, che aveva prtecipato alle riprese). A. C.

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