Paolo Lacchin

Gli occhi parlano nella notte.

Il momento più prolifico della giornata, quando mi trovo nel secondo Paese più popoloso dell’Africa, l’Etiopia, è sicuramente quando si spengono le luci, il suono della foresta lambisce le orecchie e il mondo umano tace, lasciando spazio alla quiete della notte. Senza internet e luce rimangono solo le immagini che gli occhi, come piccole fotocellule, hanno catturato. Riemergono dettagli, lembi di frasi, suoni e profumi che hanno caratterizzato il tempo trascorso.

Le piccole pupille degli occhi dei bambini, tra lo stupore di vedere un ferengi (bianco, in amarico) e la voglia di raccontarsi, testimoniano storie ed istanti di vita che, se non subito immagazzinati, rischiano di rimanere ignoti e dimenticati. Ripenso a quel bambino che ho visto ad Addis Abeba, sdraiato per terra a chiedere qualche moneta arrugginita. Non ha ( o aveva, chissà se è ancora vivo) neanche dieci anni, ha gli occhi rossi, più rossi della felpa sgualcita che gli contorna il biuto, la cerniere aperta fino al petto lascia intravvedere una bottiglia che tiene avidamente. Scopro solo quando avvicino la mano al portafogli, che quel bambino non è lì per caso, non ha gli occhi rossi per caso: don Kifle mi fa ritrarre la mano e mi dice di allungare il passo, di allontanarmi da lui: “è messo l’ da un’organizzazione criminale, probabilmente ci stanno guardando per rapinarti, andiamo via. Gli danno la benzina da bere, quel bambino è già morto”. Non bastano la tregua della notte, il canto leggero e libero degli uccelli notturni e il frusciare leggero degli alberi per farmi dormire tranquillo.

Parlano sempre gli occhi dei bambini, le loro bocche raramente testimoniano il dramma. Gli occhi di un bambino che gioca con un altro, vestiti di stracci nel carcere di Jimma, sono la seconda immagine: la madre è colpevole, il figlio innocente, l’infanzia negata e il respiro mi manca sempre di più. Sono occhi piccoli, che scavano nell’anima e la riempiono di domande senza risposta. Sono più di trenta i bambini che vedo nella sezione femminile del carcere di Jimma, che don Kifle mi fa visitare per comprendere la realtà di un luogo dove la pena si aggiunge alla pena, e mi chiedo che vita sia quella di un bambino che cresce, senza vedere, al di là di un muro, la vita che scorre.

Mi parlano gli occhi di un ragazzo, che a 24 anni ha vissuto l’orrore della guerra, dimenticata da tutti, nella regione del Tigray (a nord dell’Etiopia). Lui mi parla, mi racconta, mi descrive la morte e la violenza, mi confida il sogno della pace. I suoi occhi si specchiano nei miei, ma vedono altro. I cadaveri che ha ordinato, le urla delle donne, il ruggito intermittente dell’AK-47. Vuole studiare, vuole riprendere e finire gli studi, perché sa che cosa è la guerra e conosce l’antidoto, che si costruisce tra i banchi di scuola, non importa se sporchi, sgangherati o con poco spazio per scrivere. Lì si costruisce il presente, lì si respira la pace, lì camminano gli uomini e le donne liberi, che immaginano il futuro, sperimentando la speranza e la resistenza. 

Gli occhi degli studenti che incontro, che fanno parte del progetto Madiba, raccontano la serenità di avere la certezza di frequentare la scuola, sapere che possono provare a pianificare il futuro, a costruire relazioni sane e crescere insieme, in pace, se possibile.

Si chiama Bethelem e la prima volta che l’ho incontrata non ha aperto bocca. Nonostante le domande è rimasta zitta, a guardarmi. Le parole, per lei, erano lame, pugnalate. Meglio stare in silenzio e resistere. La rivedo quest’anno, con il sorriso che dipinge il suo volto nel villaggio di Gojeb, la intervisto e il suo racconto è il più lungo di tutti.

Dobbiamo credere nella scuola, nel suo valore educativo e democratico, come scuola non solo di futuro, ma anche di pace.

Mi addormento, alternando l’inquietudine alla speranza.

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