Ode all’invidia

Io venni
dal Sud, dalla Frontiera.
La vita era piovosa.
Quando arrivai a Santiago
mi costò molto
cambiare d’abito.
Ero vestito
da rigido inverno.
Mi coprivano
i fiori delle intemperie.
Mi dissanguai per cambiare
di casa.
Tutto era pieno,
perfino l’aria aveva
odore di gente triste.
Nelle pensioni
cadeva la carta
dalle pareti.
Scrissi, scrissi soltanto
per non morire.
E allora
appena
i miei versi di ragazzo
esiliato
arsero
sulla strada
mi abbaiò Teodorico
e mi morse Ruibardo.
Mi immersi
nell’abisso
delle case più povere,
sotto il letto,
nella cucina,
dentro l’armadio,
dove nessuno potesse spiarmi,
scrissi, scrissi soltanto
per non morire.
Tutto fu uguale. Si levarono
minacciosi
contro la mia poesia,
armati di ganci, di coltelli,
di pinze nere.
Allora attraversai
i mari
nell’orrore del clima
che sussurrava la febbre con i fiumi,
circondato da violenti
zafferani e dei,
mi persi nel tumulto
dei tamburi neri,
negli effluvi
del crepuscolo,
mi seppellii ed allora
scrissi, scrissi soltanto
per non morire.
Vivevo così lontano, era grave
il mio abbandono totale,
ma qui i caimani
affilavano
i loro morsi verdi.
Ritornai dai miei viaggi.
Baciai tutti,
le donne, gli uomini
e i bambini.
Ebbi partito, patria.
Ebbi stella.
Si appese al mio braccio
l’allegria.
Allora nella notte,
durante l’inverno,
in treno, in mezzo
al combattimento,
vicino al mare o alle miniere,
nel deserto o vicino
a colei che amavo
o perseguitato, braccato
dalla polizia,
feci semplici versi
per tutti gli uomini
e per non morire.
E ora
sono un’altra volta là.
Sono insistenti
come i vermi,
sono invisibili
come i topi
di una nave,
navigano
dove io navigo,
mi distraggo e mi mordono
le scarpe,
esistono perché io esisto.
Che posso fare?
Credo
che continuerò a cantare
fino a morire.
A questo punto non posso
far loro concessioni.
Posso, se lo desiderano,
regalar loro
della merce,
comprar loro un ombrello
perché si proteggano
dalla pioggia inclemente
che è arrivata con me dalla Frontiera,
posso insegnar loro ad andare a cavallo,
o almeno offrire loro
la coda del mio cane,
ma voglio che capiscano che non posso
cucirmi la bocca
perché
sostituiscano il mio canto.
Non è possibile.
Non posso.
Con amore o con tristezza,
nella fredda mattina,
alle tre del pomeriggio,
o durante la notte,
ad ogni ora,
furioso, innamorato,
in treno, in primavera,
al buio o ritornando
da una festa nuziale,
attraversando il bosco
o l’officina,
alle tre del pomeriggio
o di notte,
ad ogni ora,
scriverò non soltanto
per non morire,
ma per aiutare
altri a vivere,
perché sembra che qualcuno
abbia bisogno del mio canto.
Sarò,
sarò implacabile.
Io chiedo a loro
che sostengano senza tregua lo stendardo
dell’invidia.
Mi abituerò ai loro denti.
Mi occorrono.
Ma voglio dir loro
che è vero:
un giorno morirò
(non farò a meno di concedere
quest’ultima soddisfazione),
non c’è dubbio,
ma
morirò cantando.
E sono quasi sicuro,
benché questa notizia non li entusiasmi,
che il mio canto
continuerà
fin quando vivrò,
in mezzo
alla mia patria,
sarà la mia voce, la voce
del fuoco o della pioggia
o la voce di altri uomini,
perché con pioggia o fuoco restò scritto
che la semplice
poesia
vive
malgrado tutto,
ha un’eternità che non conosce paure,
ha tanta salute
come una mungitrice
e nel suo sorriso tanta dentatura
come per rovinare le speranze
di tutti i roditori
messi insieme.
Pablo Neruda.
Oda a la envidia
Yo vine
del Sur, de la Frontera.
La vida era lluviosa.
Cuando llegué a Santiago
me costò mucho
cambiar de traje.
Yo venìa vestido
de riguroso invierno.
Flores de la intemperie
me cubrìan.
Me desangré mudàndome
de casa.
Todo estaba repleto,
hasta el aire tenìa
olor a gente triste.
En las pensiones
se caìa el papel
de las paredes.
Ecribì, escribì sòlo
para no morirme.
Y entonces
apenas
mis versos de muchacho
desterrado
Ardieron
en la calle
me ladrò Teodorico
y me mordiò Ruibardo.
Yo me hundì
en el abismo
de las casas màa pobres,
debajo de la cama,
en la cocina,
adentro del armario,
donde nadie pudiera examinarme,
escribì, escribì sòlo
para no morirme.
Todo fue igual. Se irguieron
Amenazantes
Contra mi poesìa,
con ganchos, con cuchillos,
con alicates negros.
Crucè entonces
los mares
en el horror del clima
que susurraba fiebre con los rìos,
rodeado de violentos
azafranes y dioses,
me perdì en el tumulto
de los tambores negros,
en las emanaciones
del crepùsculo,
me sepulté y entonces
escribì, escribì sòlo
para no morirme.
Yo vivìa tan lejos, era grave
Mi total abandono.,
pero aquì los caimanes
afilaban
sus dentelladas verdes.
Regresé de mis viajes.
Besé a todos,
las mujeres, los hombres
y los ninos.
Tuve partido, patria.
Tuve estrella.
Se colgò de mi brazo
La alegrìa.
Entonces en la noche,
en el invierno,
en los trenes, en medio
del combate,
junto al mar o las minas,
en el desiero o junto
a la que amaba
o acosado, buscàndome
la policìa,
hice sencillos versos
para todos los hombres
y para no morirme.
Y ahora
otra vez ahì estàn.
Son insistentes
como los gusanos,
son invisibles
como los ratones
de un navìo,
van navegando
donde yo navego,
me descuido y me muerden
los zapatos,
existen porque existo.
Qué puedo hacer?
que seguiré cantando
hasta morirme.
Yo creo
no puedo en este punto
hacerles concesiones.
Puedo, si lo desea,
regalarles
una paqueterìa,
comprarles un paraguas
para que se protejan
de la lluvia inclemente
que conmigo llegò de la Frontera,
puedo ensenarles a andar a caballo,
o darles por los menos
la cola de mi perro,
pero quiero que entiendan
que no puedo
amarrarme la boca
para que ellos
sustituyan mi canto.
Non es posible.
No puedo.
Con amor o tristeza,
de madrugada frìa,
a las tres de la tarde,
o en la noche,
a toda hora,
furioso, enamorado,
en tren, en primavera,
a oscuras o saliendo
de una boda,
atraversando el bosque
o la oficina,
a las tres de la tarde,
o en la noche,
a toda hora,
escribirè no sòlo
para no morirme,
sino para ayudar
a que otros vivan,
porque parece que alguien
necesita mi canto.
Seré,
seré implacable.
Yo les pido
que sostengan sin tregua el estandarte
de la envidia.
Me acostumbré a sus dientes.
Me hacen falta.
Pero quiero decirles
que es verdad:
me moriré algùn dìa
(no dejaré de darles
esa satisfaccìon postrera),
no hay duda,
pero
me moriré cantando.
Y estoy casi seguro,
aunque no les agrade esta noticia,
que seguirà
mi canto
màs acà de la muerte,
en medio
de mi patria,
serà mi voz, la voz
del fuego o de la lluvia
o la voz de otros hombres,
porque con lluvia o fuego quedò escrito
que la simple
poesia
vive
a pesar todo,
tiene una eternidad que no se asusta,
tiene tanta salud
como una ordenadora
y en su sonrisa tanta dentadura
como para arruinar las esperanzas
de todos los reunidos
roedores.
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