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Prima gli Italiani

Emigrazione italiana in Brasile.
Emigrazione italiana in Brasile.

E’ un’espressione ripetuta piu’ volte dalla classe politica attuale. L’espressione nasconde e allo stesso tempo rivela una visione parziale della realta’ italiana, con la sua storia e cultura, i suoi alti e bassi che si sono susseguiti nel corso di tanti secoli. Ma l’ Italia e’ la stessa terra = teatro comune, su cui si sono incontrati e a volte scontrati tanti modi di vivere e di agire, con a fianco il diverso o straniero.

Entriamo nel concetto e pratica (o no) dell’ ospitalità, di quel valore che ci e’ stato insegnato come un “dovere”, perche’ ogni ospite è “sacro”. Ma rispolveriamo un po’ le reminescenze scolastiche.
La parola “ospite” ha in latino la corrispondenza in due termini con la stessa radice ma di senso lievemente differenziato: «hostis» e «hospes». Il primo indicava colui che viene accolto, il secondo colui che accoglie. Nella lingua italiana usiamo un unico termine che spesso crea ambiguità.

Ma, attenzione, nel significato arcaico il termine latino “hostis” (colui che viene accolto) era originariamente riferito all’estraneo, allo “straniero”, a chi non appartiene alla medesima famiglia, al medesimo popolo. Questa espressione, con il tempo venne assimilata al termine «inimicus» con il concetto di “ostile”, probabilmente già all’epoca delle conquiste imperiali, quando popolazioni ‘straniere’ resistevano all’integrazione, ossia alla romanizzazione.

Nella più antica civiltà greca era usato il termine «xenos» (da cui deriva xenofobia) con lo stesso significato e «xenia» per ospitalità. «Lo straniero è per gli uomini e per gli dèi oggetto di un più grande amore».  “L’ospite è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno», sono frasi che ci rimandano alle leggi di Platone e all’Odissea di Omero. Gli dei dell’Olimpo si riservavano il diritto di premiare o lanciare punizioni.

Questo avveniva anche tra altri popoli, come ad esempio gli Ebrei. L’ingiunzione divina prescriveva: «Quando qualche forestiero soggiornerà con voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero che soggiorna fra voi, lo tratterete come colui ch’è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso; poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Levitico 19, 33-34). In tutto il mondo antico l’ospitalità era importante al punto da essere considerata la relazione più profonda e più sacra nella quale possano stare due abitanti di questo mondo.

Il retroscena storico non sarebbe completo, a nostro parere, se omettessimo l’odissea dell’emigrazione italiana durata un secolo (1870-1970), con i diversi milioni di connazionali che hanno bussato alla porta di tante altre comunita’ per chiedere ospitalita’ o liberta’ di transito. Gli Italiani stessi diventati stranieri, alla ricerca dei medesimi benefici che ora fanno parte dei desideri di tanti nuovi “ospiti” che si affacciano alle frontiere italiane di terra o di mare.

A questo punto possono sorgere, spontanee e immediate, molte domande: come questi e tantissimi altri riferimenti alla storia e  alla Bibbia possano rispondere realisticamente – e
dunque in modo significativo ed efficace – alle problematiche dell’ospitalità che tanto
inquietano e impegnano oggi la nostra società e i nostri territori?
La cultura greca o la storia del diritto nell’antica Roma o la Bibbia sono testi lontani millenni dal nostro tempo: quale attualità possono
rivendicare? Son lontani non solo cronologicamente, ma anche e non meno nelle forme della vita sociale e della sensibilità culturale: quale sintonia può esserci con noi?


Sono consapevole della vastità e complessità del fenomeno dell’immigrazione oggi, che comprensibilmente genera non pochi problemi di ordine pubblico, di risorse, di integrazione… Mi domando: sta davvero qui il cuore della questione? Per la nostra società gli immigrati sono un problema solo perché sono davvero troppi, come si ripete? Oppure  ci fanno paura in quanto “stranieri”? Confessiamolo: indipendentemente da discussioni colabrodo su ius sanguinis o ius soli, quanti italiani teniamo ai margini perché in certo modo “stranieri”, diversi da noi? Penso ai malati gravi – e tra loro a quelli che soffrono patologie psichiche -, ai carcerati, ai barboni, ai portatori di handicap, agli anziani…

È soltanto apparentemente lontano il tempo in cui, nel 1938, Martin Buber (grande pensatore ebreo-tedesco, 1878-1965) intraprendeva un viaggio, non certo di sua volontà, costretto com’era a fuggire dal nazismo. E, nella precarietà di quella situazione scriveva: “Viviamo un’epoca ‘senza casa’, siamo perduti ‘in aperta campagna’ e non possediamo neppure quattro picchetti per innalzare una tenda”.

Era, evidentemente, una metafora: la dimora di cui denunciava la mancanza non era certo una casa fatta di muri e stanze, o di tela come una tenda. Buber si riferiva ad una dimora più intima, più essenziale e urgente: a quella dimora esistenziale, che per lui era l’Io – Tu, l’incontro autentico, il dialogo che chiama ciascuno ad uscire dalla nicchia dell’autocentramento, dove la parola è monologo, pensiero unico, o dall’anonima indifferenza di una collettività omogeneizzante, dove la parola è “chiacchiera”, cacofonia; è vuota, è morta.

O come avverte un altro pensatore molto citato, come Bauman: ci rintaniamo nel chiuso delle nostre paure, e – spinti dalla crescente “Building Paranoia (Paranoia del costruire muri) – innalziamo attorno alle nostre case, attorno ai nostri quartieri o alla nostra “civiltà” una serie infinita di recinzioni, di separatori sociali, di strumenti di interdizione che – elementi portanti di una cultura dell’apartheid – impediscono all’altro di valicare i nostri confini e di avvicinarsi alle nostre abitazioni. Questi bunker dell’io, queste nicchie culturali iperprotette da sofisticati sistemi d’allarme, non sono certo la “dimora” intesa da Martin Buber. In esse, l’essere umano (individuale e collettivo) spesso tradisce se stesso, contraddice il compito di migliorare, di diventare più grande, di “oltrepassarsi” veramente, andando oltre i confini ristretti per avvicinarsi ad altri fini.

Brasile. Quando i disperati eravamo noi.
Brasile. Quando i disperati eravamo noi.

Tutt’altro che facile e scontata, la dinamica dell’ospitalità chiama in causa un’arte complessa che si articola attorno a più movimenti: l’arte di allestire un luogo abitabile, l’arte di invitare, l’arte di andare a trovare e infine l’arte di sostare. Affrontando e superando, in ogni fase, contraddizioni e resistenze varie.

 

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