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Machu Picchu

Autore: Giovanni Di Sarno

Cuzco, Perù, 1993
L’aeroporto Alejandro Velasco Astete di Cuzco è situato praticamente dentro la città. Uscito dal terminal presi un taxi e mi feci portare al Barrio de San Blas, il quartiere più antico e caratteristico, quattro isolati a Nord della Plaza de Armas. Avevo anticipato la partenza da Lima mio malgrado, il clima che si respirava nella capitale non era dei migliori. Due giorni prima, infatti, mentre facevo colazione in un ristorante di Miraflores, un forte boato aveva squassato l’aria mandando tutti nel panico. Come seppi in seguito, il movimento rivoluzionario di Sendero Luminoso aveva compiuto un attentato dinamitardo nel vicino quartiere di San Borja, causando il ferimento di alcune persone e la distruzione di una centrale elettrica. Così, pensai bene di cambiare aria e mettere una certa distanza tra me e la capitale. Ero stato a Cuzco sei anni prima, ma girando per la città poco o nulla era cambiato. Si respirava la stessa atmosfera di abbandono, di oblio. Mi sentivo non solo in un altro paese ma anche sospeso in un altro tempo, misterioso e affascinante. A San Blas presi una camera al Tambo Real, una vecchia posada in adobe con l’insegna a bandiera in ferro battuto e incisione su legno. Qualche giorno dopo, sotto i porticati del Museo de Arte, conobbi un ragazzo che vendeva poro poro e pushgay, frutta paragonabile all’arancia e ai mirtilli. Era un tipo sveglio e loquace. Parlando del più e del meno, seppi della comunità di artisti e artigiani che viveva nella parte alta della città, poco lontano dalla fortezza di Sacsayhuamán. Incuriosito mi decisi per una visita. Venni accolto con molta cortesia e trascorsi tutta la giornata con loro. In gran parte erano giovani che provenivano dalle vicine regioni, attratti dalla reputazione che vantavano gli storici laboratori di Cuzco. Per un modico contributo in denaro mi permisero di alloggiare con loro. Dal giaciglio che mi ero procurato, lungo un corridoio al primo piano, avevo un’ottima visuale. Mancava, di fatto, l’intera parete, per cui potevo spaziare con lo sguardo dal cortile fino alla sierra, che cinge la città. L’edificio, come molti altri, era stato semidistrutto nel terremoto del 1986, mai ristrutturato era diventato adesso la residenza di questi giovani che avevano dato vita a una comune. Nell’ampio cortile, simile ad una grande officina a cielo aperto, si svolgevano diverse attività: taglio e lavorazione della pietra, lavori di ebanisteria, conciatura di pelli e cuoio, tessitura della lana e confezione di monili in argento e rame. In un angolo, tra due enormi cumuli di pietre, una fucina era perennemente all’opera. Il fumo e le scintille conferivano al luogo un aspetto primordiale, arcaico. Dopo una settimana salutai la compagnia, sono sicuro di aver lasciato un buon ricordo di me, oltre a una ricetta passabile di pizza con queso y tomate. Il treno per Aguas Caliente partiva alle otto dalla Estación San Pedro, alle spalle del Mercado Central. Avevo tergiversato già troppo, non vedevo l’ora di ritornare nella valle dell’Urubamba, nel cuore della civiltà Inca, nella strabiliante, meravigliosa, ineguagliabile Machu Picchu. 130 Km verso Nord Ovest, seguendo da vicino il fiume Urubamba. Diverse ore di viaggio tra paesaggi mozzafiato, montagne che a tratti si potevano toccare con mano, e vallate che improvvisamente apparivano dopo un tunnel o una svolta repentina del treno. Arrivai a Aguas Caliente nel primo pomeriggio, alloggiai in un hotel provvisto di vasche di acqua termale, che era la caratteristica principale del luogo. Il mattino seguente, di buon ora, salii sulla prima navetta che poco dopo partì in direzione del sito archeologico; erano le sette e sarei stato tra i primi visitatori. Il capolinea è un grande piazzale a qualche centinaio di metri dalle rovine. A fianco del botteghino dove acquistare il ticket per l’entrata c’è l’unico punto di ristoro, che fornisce bevande, cibo e attrezzatura di base per scalatori. Pagai il biglietto e tirai dritto senza perdere tempo. L’area edificata di Machu Picchu è divisa nettamente in due grandi settori separati da un muro di pietra e un canale. Provenendo da Sud oltrepassai la prima zona, quella agricola, poi entrai nella zona urbana. Dopo la Puerta de la Ciutad a passo spedito passai davanti al Templo del Sol. Poi il Grupo del Còndor, la Residencia Real, la pietra Intihuatana, che è l’oggetto più studiato dagli archeologi di tutto il mondo per le sue funzioni astronomiche, di seguito la Plaza e infine la Roca Sagrada, dove mi fermai e alzai lo sguardo al cielo. Davanti si ergeva il monte Huayna Picchu, il mio vero obietivo. Oltrepassai la sottile cresta rocciosa che lo separa dalla piana del sito archeologico, e mi portai ai piedi del massiccio. Avevo già scalato il Huayna Picchu, richiamai alla mente la prima volta e attaccai subito il sentiero, con determinazione. Il percorso è verticale, impegnativo, ma non richiede particolari attrezzature, a parte buone scarpe e ginocchia robuste. Dopo circa 40 minuti di arrampicata guadagnai la vetta. Non c’era nessuno, ero solo come avevo sperato. Dalla sommità si sovrasta l’intero complesso di Machu Picchu, 300 metri più in basso. L’Urubamba, scuro e spumeggiante, serpeggiava a valle tra le pareti di roccia, il fragore delle acque mi giungeva amplificato, poderoso, in contrasto con la quiete che regnava in cima. Mi sedetti su un grande masso e mi guardai intorno. Ero circondato dalle vette della Cordigliera a perdita d’occhio. La distanza, la foschia e l’ora mattutina le dipingevano con colori di mille sfumature: blu, indaco, zaffiro, viola, ardesia, bronzo e ametista. Mi sdraiai sul masso e pensai alla mia fortuna. Ero esattamente dove volevo essere, sul magico vertice del Huayna Picchu.

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