ArticoliGiovanni di SarnoRacconti Brevi

Nazca

Autore: Giovanni Di Sarno

Nazca, Dipartimento di Ica, Perù. 1987
Lo stridio dei freni mi annunciò che ero arrivato. L’autobus si era fermato nei pressi di una rotonda, al centro della quale campeggiava una statua equestre. Quasi sicuramente raffigurava Simón Bolívar, il rivoluzionario venezuelano detto il Libertador, il cui contributo fu determinante per l’indipendenza di Panama, Colombia, Ecuador, Bolivia e Perù. Scesi a terra e mi guardai intorno, non si vedeva anima viva, a parte un tacchino. Il volatile, dal piumaggio rado e incolore, emetteva striduli versi, forse un saluto al sole che stava sorgendo in quel momento. Presi la strada per il centro diretto alla Plaza de Armas, ogni città in Sudamerica ne ha una e Nazca non sarebbe stata da meno. Alle mie spalle sentii l’autobus che ripartiva, era diretto a Sud, a Puerto de Lomas, lungo la polverosa Carrettera Panamericana. Presi alloggio in un hotel a due piani di recente costruzione, non lontano dalla piazza. Intonacato di bianco con una serie di bandiere che penzolavano sull’ingresso, la posada contrastava con il resto del paese dove gli edifici si mostravano diroccati e fatiscenti. Prima di salire in camera, dove mi aspettavano una doccia e almeno sei ore di sonno, l’impiegato al banco mi fissò un appuntamento con un pilota di piper, poiché l’unico modo per vedere le strabilianti Linee di Nazca era quello di volarci sopra. Verso sera si presentò il pilota. In jeans, stivali e camicia a quadri, appariva gioviale, aveva un modo di fare franco e diretto e sotto i baffi spioventi esibiva un sorriso contagioso. Pattuimmo trenta dollari americani per il volo e decidemmo di incontrarci alle nove del mattino seguente, sulla pista di atterraggio a venti km in direzione Nord. Il paese di notte era ancora più tetro. Le poche luci giallognole rischiaravano a malapena le strade sterrate, quasi non si vedevano auto e i pochi passanti rasentavano i muri camminando in silenzio. Nei pressi del mercato finalmente un cambio di immagine. Da un enorme portone socchiuso usciva un bel fiotto di luce insieme ad una musica invitante. Senza indugio, oltrepassato un paio di muli legati alla staccionata, varcai la soglia. Il locale, sottoposto rispetto alla strada, era ampio e aveva un grande tavolo nel centro occupato da pochi avventori. Sul fondo tre musicisti con i poncho multicolori e il chullo, il tipico berretto del luogo, erano intenti a suonare la zampoña il charango e il bombo, riversando le note andine sotto le travi annerite del tetto. Avevo fame e mangiai quello che mi portarono al tavolo, Bofe e tamales, frattaglie di manzo e pasta di mais ripiena di formaggio e vegetali, da bere il Pisco, l’acquavite nazionale. Quando tornai all’hotel le strade mi apparvero più luminose ed allegre, sicuramente merito del Pisco di cui conoscevo le indiscusse qualità terapeutiche. Al mattino, ancora frastornato dalle libagioni della sera precedente, mi recai all’appuntamento con un taxi procurato dal solerte portiere. Il pilota mi aspettava impaziente al fianco del suo velivolo, un modello americano, sei posti con elica di legno che aveva visto tempi migliori. All’interno della carlinga c’erano altri due passeggeri, il pilota mi fece cenno di salire e mi propose di sedermi al suo fianco. Poi avviò il motore e partimmo. La pista era sterrata e piena di sassi, alcuni grandi come cocomeri, ma l’uomo al mio fianco non ci badava molto. L’aereo sobbalzava violentemente e alla fine, contro ogni previsione, prese velocità e alzò il muso verso il cielo. Il primo disegno che vidi fu il colibrì, sembrava un’incisione ad acquaforte, preciso, nitido e meravigliosamente misterioso. Il pilota a quel punto fece un virata repentina ed inaspettata che mi fece balzare il cuore in gola. Ridendo come un matto mi disse che in questo modo avrei visto meglio le linee, più da vicino e tutte intere. Mi girai verso gli altri passeggeri, quello al centro era impassibile e non mostrava paura, l’altro, seduto sul fondo, era aggrappato ai sedili con gli occhi fuori dalle orbite, in un lamento muto e solitario. Non saprei dire se il pilota fosse ubriaco o semplicemente folle, fatto sta che aveva ragione. Le sue manovre mi permettevano una visuale perfetta e ravvicinata. Poco a poco mi abituai a quelle montagne russe, anche perché potevo fare ben poco. Dopo il colibrì venne il turno del ragno, poi il serpente, la scimmia, la balena, la stella e la spirale e altri ancora. Intanto il malcapitato turista seduto in fondo stava vomitando anche l’anima, ma il prode aviere non ebbe pietà. Continuò il volo come se niente fosse, tra cabrate audaci e picchiate vertiginose, condite dalle sue sonore e sghignazzati risate. L’ultima linea che ebbi modo di vedere fu l’astronauta. Sul versante di una piccola collina, a margine del complesso archeologico, compariva una figura di un umanoide. Somigliava ad un personaggio spaziale della Walt Disney: circa trenta metri d’altezza, grande testa tonda, enormi occhi sferici e gambe e piedi ben evidenziati, come se fossero fasciati da una tuta imbottita. Inoltre presentava un braccio alzato e sembrava salutarmi in modo affettuoso.
cats

 

(73)

Loading