ArticoliGiovanni di SarnoRacconti Brevi

La villa

Casamicciola Terme, 1970
Ci trasferimmo nell’isola alla fine di luglio. Mio padre trovò vantaggioso il fitto di una villa, e così pagò due anni anticipati. Posta sul versante est del Monte Tabor, vantava una splendida vista sul mare con l’isola di Procida a un tiro di schioppo. Il cancello in ferro battuto lasciava intravedere la doppia scala che portava all’ingresso, e nel mezzo un arco di pietra delimitava l’accesso alla cantina col soffitto a volta.
In stile Barocco, l’edificio era composto da due piani con cinque stanze per livello, e con un ambiente cucina di recente costruzione. Sul retro, il giardino traboccava di alberi da frutta. Ero il maggiore di quattro figli, avevo quasi dodici anni e tutto mi sembrava meraviglioso, profumato. Poi venne l’autunno e con esso il tempo dei fantasmi. Era di lunedì, lo ricordo perchè era l’unico giorno in cui la RAI trasmetteva il film, e sedevo attento, davanti alla TV, con mia madre e i miei fratelli. Mia sorella, che aveva tre anni, scarabocchiava su una lavagnetta, mio padre, quella sera, era fuori per una cena di lavoro. Udimmo il rumore della serratura e il cigolio della porta di ingresso. Marinella esclamò di riflesso: “Mamma, mamma è arrivato babbo”. Passò un minuto e non accadde nulla. Mia madre, a voce alta, proruppe: “Pasquale, dai non fare così, i bambini si mettono paura, esci fuori e smettila con questo stupido scherzo”! Ancora silenzio. Mamma a quel punto spense il televisore e fece un altro appello che non sortì risposta. Poi, udimmo un calpestio di passi che proveniva dalla stanza accanto, seguito dallo stridio dei cardini prodotto dalle porte che si aprivano, e questi rumori sinistri ci fecero balzare tutti quanti in piedi. Il trambusto ci impaurì, ma il panico ci avvolse in un lampo quando i rumori si fecero più violenti e vicini. Impulsivamente presi un coltello dal cassettone, mentre mamma apriva la finestra. Eravamo al piano terra, e mentre i miei scavalcavano il davanzale, io aspettai che gli intrusi uscissero dal buio. Brandivo l’arma verso la porta del corridoio, tremante, col cuore in subbuglio, col tempo che non passava mai. Non appena ci riunimmo all’esterno urlammo tutti insieme in direzione dell’edificio di fronte, dove subito si affacciò una donna. Ci precipitammo fuori nella strada proprio mentre nostro padre era di ritorno. Alcuni vicini, che nel frattempo ci avevano raggiunti, decisero di entrare in casa con papà per un controllo, ma non trovarono nessuno e tutto sembrava in ordine. Il giorno dopo, un contadino ci disse che, allarmato dalle nostre grida, si era affacciato dalla finestra della sua camera da letto e aveva visto delle ombre correre tra gli alberi nel nostro giardino. Una fuga improbabile, visto che il terreno era completamente cinto da alte mura. Mio padre attribuì scarsa importanza alla vicenda, liquidò la storia come un eccesso di fantasia da parte nostra, una suggestione collettiva. Ma nei mesi seguenti accaddero altri inquietanti episodi. Un’anfora, sebbene sottoposta, cadde dal tetto e si frantumò davanti alla porta d’ingresso, Black, con il pelo ritto, abbaiò come un invasato tutta una notte fuori la stanza dove era stipato il vecchio mobilio della villa. A volte era angosciante entrare in cantina perché capitava che le luci si spegnessero di colpo, per riaccendersi appena uscivamo. Per non dire poi del fatto che spesso mi si rizzavano i capelli dietro la nuca come se qualcuno mi alitasse sul collo, un fenomeno improvviso, sgradevole, che sperimentavano anche i miei fratelli. Di notte si viveva un’atmosfera di attesa, di circospezione, in particolare quando non potevo fare a meno di andare in bagno. Percorrevo il ballatoio e le scale con la certezza che una forza maligna mi avrebbe artigliato da un momento all’altro. Mio padre seguitava ad essere tranquillo, o forse pensava al denaro dato in anticipo, ma in seguito, suo malgrado, cambiò atteggiamento. Erano le sei del mattino, e come di consuetudine prendeva il caffè in cucina quando, portando la tazza alle labbra, senti qualcuno che si schiariva la gola dietro le sue spalle. Si voltò ma non vide nessuno. Era solo. Confuso prese di nuovo la tazza, mentre la portava alla bocca udì nuovamente un verso umano, più accentuato, quasi perentorio. Da quel giorno dormimmo tutti in una sola stanza, e dopo due mesi, con sollievo di tutti, cambiammo finalmente casa.

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