La città degli uomini che hanno preso il volo
Autore: Piero Fortini
Mentre poggiato sul filo osserva le persone sulla via, l’uccello ha l’aria perplessa. Muove a scatti la testa: a destra, a sinistra, in basso, poi torna in posizione centrale. Assorto.
Un uomo cammina rapido, il passo lungo e svelto, cadenzato, l’aria disinvolta e risoluta da destinazione certa di chi punta davanti a sé e non vede nessuno.
Una donna avanza a balzi, nervosa. Ha appena lasciato il bambino a scuola e ora deve arrivare al lavoro. Prima ha preparato la colazione per tutti, ha aiutato il figlio a lavarsi e vestirsi, ha dato un bacio al marito che usciva, elegante e forbito.
Un ragazzo incalza pattinando. Ascoltando musica danza radente, screziando la strada, con un velo di autismo sul viso.
L’uccello si chiede con stupore come mai nessuno di loro voli. É come se il cielo non fosse parte della loro vita, della realtà. Fondamentali sono i piedi, il loro poggiare sul suolo, unica base di movimento. I passi degli uomini misurano la terra e ignorano il cielo. Ciò che si innalza oltre la loro testa è un mistero quotidiano, una dimensione perduta, attimo dopo attimo, per sempre.
”Per me”, cinguetta tra sé e sé l’uccello, “sono il cielo, il vuoto, le distanze la realtà, il mondo in cui mi muovo; la terra è solo di tanto in tanto un momentaneo appoggio.
Le persone invece vivono là tutta la loro vita. Quali pesi le opprimono a terra? Forse le teste sono troppo grandi o portano dentro pensieri di pietra? Il cuore è troppo piccolo rispetto all’intero corpo? Dolori affilati arpionano le loro spalle, il loro petto? Hanno ciglia troppo folte per volgere lo sguardo verso l’alto? Un uomo che ha pensato di mettersi in volo si è bloccato per paura di trovarsi solo?
Gli faremmo noi da corona, saremmo la sua scorta aerea. Lo aiuteremmo a far defluire l’aria, a scegliere le correnti, ad orientarsi tra gli odori e le differenze di luce, a traguardare la penombra. Gli insegneremmo il nostro linguaggio, i nostri vezzi, a superare barriere, a restare sospeso, a scattare in avanti, a virare, a piroettare, a tornare indietro, a traversare le infinite traiettorie possibili. Qui da noi cambiare direzione è normale, è la vita di sempre, talvolta è la sopravvivenza.
Guardarli incollati laggiù, gli uomini, dà malinconia. Così monocordi, unidimensionali, strascicati, spiaccicati, noiosi. Sprecati. Ma veramente non sappiamo cosa possiamo fare per loro. Neanche ci guardano mai!”.
“Andiamo a prenderli!” cinguettò un altro uccello, appollaiandosi accanto.
“Cosa?”
“Andiamo a prenderli noi. Portiamoli sù.”
“Tu sei matto!”
Fu così che una gigantesca nuvolaglia scura piombò sulla città e centinaia di becchi azzannarono per gli indumenti l’uomo, la donna e il ragazzo e li issarono come panni stesi portati ad asciugare più vicini al sole. In alto il vento si era fatto gagliardo e la gonna tesa della donna sembrava una vela, vagante in un mare rovesciato.
Non si sa quale sia stata la fine. Se volteggiano ancora in qualche cielo; se, depositati su una inaccessibile altura, stanno imparando a volare; se si sono sgretolati, sfracellandosi contro un suolo sconosciuto.
Resta l’interrogativo sul diritto di tentare prometeicamente di cambiare il destino altrui o se si sia trattato di una iniziativa, improntata a spirito totalizzante, di uniformare diversità di vita.
Solo un paio di pattini sono stati ritrovati in un fossato, ventiquattro chilometri più a est.
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