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Ercole dei violini

Autore: Giovanni Di Sarno

Settembre 1993
 
Erano passati tre anni da quando era morto. 
Era la prima volta che andavo a trovarlo nel cimitero di Forio, la tomba era protetta dall’ombra di un alloro ricurvo. Ad un metro da me sulla destra un serpentello guizzò nell’erba a fianco della lapide. Guardando la sua foto l’apparizione del rettile mi sembrò come un presagio, forse un saluto. Aleggiava nell’aria la presenza del mio amico. Ercole era stato un pittore formidabile. Da bambino fino alla morte aveva esercitato la sua arte in quattro continenti, non disdegnando attenzione alla viscerale passione per i violini. Aveva imparato a costruirli durante gli anni di prigionia in Etiopia, sotto la giurisdizione della legione Inglese. Anni prima quasi settantenne, per problemi circolatori, aveva subito vari interventi chirurgici, con l’ultimo gli avevano amputato l’intera coscia destra, perciò cercava un’autista. Fu questa la circostanza che me lo fece conoscere. Avevo bisogno di un lavoro e il vecchio, seppur eccentrico, era molto simpatico. Con la sua Fiat Ritmo effettuammo rapidi viaggi nella capitale. In Trastevere aveva uno studio appartamento custodito da una sua allieva giapponese, e sul lago di Bracciano possedeva una villa abitata da due levrieri afgani e ventiquattro gatti, che Geppo, il suo giardiniere, accudiva di tanto in tanto. A vari scaglioni trasportammo parte degli animali e tutto il materiale da lavoro a Forio d’Ischia dove Ercole viveva da tempo. Era mezzo secolo che pescava in apnea nel mare di punta Caruso, aveva scritto, tra vari altri, un romanzo ambientato in quei favolosi fondali. La nostra amicizia andava costruendosi progressivamente ma in particolar modo durante le lunghe ore che trascorrevamo chini sui legni di acero, conservati da anni in luoghi asciutti e privi di umidità. Ercole in un mese era capace di plasmare un ciocco di legno in un violino finito e sonante. Anima, ponticello, ricciolo, piano armonico, cassa, effe, mentoniera, archetto, pece greca, manico, tiracorde, colla di pesce, spessimetro e vernici puzzolenti. Era affascinante e in minuscole dosi davo anche io un contributo alla creazione di quelle sculture dal manto tigrato. “Ogni violino ha la sua voce” ripeteva spesso il Maestro, ed essendo il solo che sapesse suonarli sosteneva che, per questo motivo, non era mai in grado di apprezzarne il suono. In un afoso pomeriggio di agosto si affacciò al portone di casa un signore. Chiedeva di poter ammirare i violini che aveva notato appesi ad un filo dove solitamente venivano asciugati i panni lavati. Era un uomo curioso ma soprattutto era un insegnante del conservatorio di Mantova. Ercole lo pregò subito di suonare alcuni dei violini che conservava nello studio. Per due ore, in estasi, il mio amico ascoltò il nostro visitatore, che per ogni strumento eseguì una composizione diversa.

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