Andrea Cantaluppi articoliArticoli

La diaspora e il mondo greco (capitolo terzo)

Negli ultimi secoli dell’antichità e nei primi dell’era cristiana, gli ebrei si erano sparsi lungo tutto il perimetro del Mediterraneo, e in particolare ad Alessandria e a Roma, dove diedero origine alla diaspora. Ecco alcune città importanti, vicine al mare, dove si trovavano centri ebraici: Ostia, Genova, Bologna, Ravenna, Napoli, Pompei, Taranto e Venezia in Italia; Marsiglia, Arles e Narbona in Gallia; Atene, il Pireo e Patrasso in Grecia; Smirne, Efeso e Pergamo in Asia Minore; e ancora varie isole dell’arcipelago, Antiochia di Pisidia e Tarso di Cappadocia, nonché, sulla costa meridionale, Cirene e Cartagine. Anche se non sempre erano collegate tra loro, tutte queste comunità conservavano un rapporto con Gerusalemme e il Tempio, che finché rimase in piedi fu realmente, e tale restò dopo la sua distruzione, l’unico centro, dal punto di vista ideale, del culto reso all’unico Dio. Si potrebbe dire che come per i greci l’unità dell’universo è espressione dell’unità di Dio, così come per gli ebrei l’unità del Tempio è simbolo del monoteismo. Cicerone testimonia, nella sua difesa di Flacco, accusato di concussione dai greci e dagli ebrei della provincia dell’Asia Minore di cui era stato governatore, che “ogni anno veniva abitualmente esportato dell’oro, in nome degli ebrei d’Italia e di tutte le nostre provincie, verso Gerusalemme”. Era l’imposta che doveva essere pagata annualmente al Tempio, e la cui sola esistenza bastava a simboleggiare un’unica cittadinanza. Da parte dei romani, gli ebrei conobbero vari periodi di fortuna e di disgrazia. Praticarono il proselitismo e non vi è dubbio che in quell’epoca si ebbero delle conversioni al giudaismo. Il loro rifiuto di qualsiasi compromesso con il paganesimo ufficiale, per altro aperto a tutte le religioni orientali, fece sì che si alienassero molte simpatie e si facessero numerosi nemici. È, in fondo, al loro assoluto e inflessibile monoteismo che si riferisce Plinio il Vecchio quando li definisce “ un popolo che si distingue nell’oltraggiare le divinità”. A Roma sei catacombe serbano il ricordo degli ebrei vissuti nella capitale dell’impero.
Un posto a parte meritano però gli ebrei d’Egitto, e in particolare quelli di Alessandria, grazie alla magistrale opera di Filone. La popolazione ebraica di tale città era di cultura greca. La Bibbia, però, era stata tradotta in greco, nella versione detta dei Settanta. D’altra parte, un contatto tra le idee provenienti dalla Grecia e quelle bibliche aveva già avuto luogo: ne testimoniano i libri deuterocanonici, come quello della Sapienza. Filone di Alessandria vuole rendere accessibili allo spirito ellenistico, nutrito di platonismo e di stoicismo ma anche curiose delle religioni misteriche orientali, la profondità del pensiero mosaico e il significato simbolico della Legge. Lungi dal rinnegare la pratica esoterica che segue la lettera, Filone dimostrò, con un commento allegorico dei testi sacri, che Mosè aveva dato agli uomini una visione di se stessi, del mondo e di Dio che rappresentava la più pura saggezza e portava a perfezione l’intera tradizione filosofica. Si realizzava così, in un certo senso, l’unità tra il monoteismo dei grandi filosofi e quello della rivelazione. Il pensiero di Filone, straripante di ricchezze, avrebbe alimentato soprattutto, attraverso le opere di Clemente Alessandrino, la patristica cristiana greca.

La rivelazione cristiana

Gesù di Nazareth nacque quando Filone era circa a metà del suo cammino. In quel periodo il giudaismo, percorso da crisi sociali e politiche, era in fermento sotto l’influsso di concezioni religiose diverse. Si contrapponevano farisei, sadducei e zeloti. E vi erano anche gli esseni, che conosciamo meglio attraverso i manoscritti del Mar Morto, e i terapeuti che forse aderirono al loro movimento, e dei quali Filone parla nel De vita contemplativa. È in tale ambiente agitato e inquieto, ma animato da molteplici fervori, che nasce il cristianesimo.
Il Dio unico predicato da Cristo è sempre quello di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma non è più considerato nei rapporti storici che lo legarono al suo popolo, ai quali i Vangeli fanno riferimento solo con pochi, frammentari richiami. Egli è innalzato al di sopra delle umane miserie, delle lotte contro gli idolatri, dell’aiuto a coloro con i quali aveva stretto alleanza. È assunto in se stesso, e nello stesso tempo in tutta la purezza della sua sovranità trascendente.
“Dio è amore”, annuncia Giovanni nella sua prima Epistola. Ecco la grande, la nuova rivelazione. Platone, nel Convito, chiedeva se l’amore (Eros) fosse un dio. Qui però si afferma che Dio è amore, e il santo autore usa il termine agàpe per eliminare qualsiasi riferimento alle teogonie e alle cosmogonie basate su immagini sessuali. Ma tale asserzione non ha alcun significato adeguato se Dio non comporta nella propria essenza il polo di colui che ama, il rapporto di amore e di conoscenza amorosa. Tale sembra essere il fondamento stesso della dottrina della Trinità.
Il cristianesimo, così e questo sarà, per circa venti secoli, uno dei terreni più fecondi di riflessioni e di modi di vivere -, rivela il mistero dell’intima esistenza di quel Dio vivente che annunciano i profeti. Insegna inoltre che l’uomo è chiamato a partecipare a tale vita attraverso l’amore. “Diletti, amiamoci gli uni agli altri; perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi no ama non ha conosciuto Iddio; perché Dio è amore. In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio: che Dio ha mandato il suo unigenito Figliolo nel mondo, affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Iddio, ma che Egli ha amato noi” (Giovanni). In tale spirito conviene rileggere la preghiera sacerdotale di Gesù nel Vangelo di Giovanni (cap. 17), e in particolare i versetti 22-23: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me”. Qui è tutto il cristianesimo: la sua rivelazione fa risplendere la luce dello spirito divino, che è amore. “Questo è il messaggio che abbiamo udito da Gesù Cristo e che vi annunziamo: che Dio è luce, e che in Lui non vi sono tenebre oscure” (I Giovanni).
Nato in seno al giudaismo, il cristianesimo visse dapprima in ambiente giudaico-cristiano. San Paolo, però, spingendo più oltre di Filone di Alessandria, capì che la sua fede avrebbe potuta essere recepita dai gentili solo se fosse stata nettamente separata dalla Legge mosaica. Ai suoi occhi il vero ebreo è il cristiano: “Poiché giudeo non è colui che è tale all’esterno; né è circoncisione quella che è esterna, nella carne; ma giudeo è colui che lo è interiormente; e la circoncisione è quella del cuore, in spirito, non in lettera” (Romani).
(Allo stesso modo, più tardi, il Corano insegnerà che il vero ebreo o il vero cristiano è il musulmano, sottomesso a Dio come lo fu Abramo). E Paolo conclude: “Poiché noi riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede, senza le opere della legge. Dio è forse Egli soltanto il Dio dei giudei? Non è Egli anche il Dio dei gentili? Certo lo è anche dei gentili, poiché vi è un Dio solo, il quale giustificherà il circonciso per fede, e l’incirconciso parimente mediante la fede” (Romani).
La rottura è netta, nonostante le precauzioni prese dall’apostolo per non escludere i suoi ex correligionari: “Annulliamo noi dunque la Legge? Così non sia; anzi, stabiliamo la legge” (Romani). Senza entrare nei dettagli della sottile dialettica paolina, dobbiamo riconoscere che la maggioranza degli ebrei non poteva seguirla. Qui sta il dramma: un solo Dio, ma quale? Riconoscere che esiste è una cosa, e una cosa fondamentale. Ma sapere Chi sia è un’altra, altrettanto importante, se non di più. Sulla questione dell’esistenza possono ritrovarsi d’accordo moltissimi uomini, siano filosofi puri o credenti che si richiamano a religioni monoteistiche. Ma sull’esistenza divina, sulla persona divina, sulla concezione stessa di Dio, si configurano numerose divergenze. Le religioni non insegnano soltanto che il Dio unico esiste, ma dicono anche che cos’è e che cosa non è. Per quanto i cristiani affermino che il vero Dio è quello che si è rivelato ai profeti di Israele, essi non si attengono a tale rivelazione, e la loro concezione di Dio che hanno ricevuto dal giudaismo è completamente diversa da quella degli ebrei. Se si considera poi che nei primi secoli della nostra era vi fu una vera e propria rivalità tra il proselitismo ebraico e quello cristiano, che il cristianesimo prevalse politicamente con l’imperatore Costantino e che gli ebrei, spesso disprezzati e maltrattati dai romani, lo sarebbero stati ancor di più dal cristianesimo trionfante, non è difficile comprendere che il popolo dell’Antico Testamento, privato del suo Tempio a Gerusalemme e dei suoi profeti, si sia concentrato, sotto la guida dei dottori sulla salvaguardia di quanto gli restava: il libro. Ed eccoli trascriverlo, stabilirne il testo, studiarlo parola per parola o addirittura lettera per lettera, meditandolo per tutta la vita, in quanto è la loro sola ragione di essere e di vivere. Si sviluppa così, nel più completo isolamento, un’immensa letteratura che si fonda sulla Mishnah, il Talmud di Gerusalemme e di Babilonia, la Halakhàh e la Haggadàh. Così si sviluppa la Qabbalah e la mistica ebraica. Gli scritti rivestono necessariamente i caratteri di una dottrina segreta: a differenza delle comunità dell’antica diaspora aperte a numerosi contatti con gli ambienti circostanti, quelle della nuova diaspora dovettero chidersi in se stesse a causa del riserbo spesso ostile che manifestava nei loro confronti la società divenuta nel suo complesso cristiana. Gli ebrei ebbero la sensazione che i cristiani pretendessero di spogliarli della loro eredità di figli della promessa, e che li derubassero del loro Dio. Il canto del Magnificat – sicut locutus est ad patres nostros, Abtaham et semini ejus in saecula” -, che devia verso Cristo tutte le promesse di Dio, esprime compiutamente l’atteggiamento cristiano che doveva indurre gli ebrei a difendere gelosamente i propri beni spirituali.
I cristiani, però, seguivano strade molto diverse. Certo, studiavano anche loro i libri sacri, ma erano altresì divenuti i latori della civiltà greco-romana. Ben presto, sedotti dal modello di Filone di Alessandria, avevano integrato nella loro riflessione la filosofia greca, facendo prima di Platone e poi di Aristotele i propri maitres à penser. Per la verità, avevano dovuto lottare contro l’invasione delle gnosi ellenistiche, forgiandosi armi efficaci per abbatterle. Più in generale si credeva che esistesse un’armonia profonda tra l’ispirazione del “divino Platone” e lo spirito delle rivelazione cristiana. Oggi c’è da chiedersi se tale collusione, nonostante le opere sublimi cui diede origine, sia stata davvero di beneficio all’espressione della fede in Dio e in Cristo. Su un altro piano, i cristiani, diffusi dappertutto, si trovarono costretti a evangelizzare. Ora, una conversione, anche sincera, non sopprime né la mentalità, né i costumi, e neppure le credenze del passato. Sorse quindi l’esigenza di conferire un nuovo significato a vecchi riti e a vecchi culti. Le negazioni, la benedizione delle messi, del bestiame, del mare si sostituiscono ai riti agrari; le stazioni della Via Crucis, all’incrocio delle strade, subentrarono alle divinità dei crocicchi; i rilievi pietrosi furono sormontati da croci; ad alcuni luoghi fu conservato l’antico carattere sacro con l’istituzione di processioni in onore della Vergine o di un santo: spesso si trattava di località che ospitavano una fonte, in molti casi dotata di sette polle d’acqua, analoghe a quelle che si collegano alla leggenda dei Sette Dormienti di Efeso.
La benedizione dell’acqua battesimale, la cerimonia delle Palme, il cero pasquale e la sua fiamma sono tutti elementi che all’interno della liturgia, e pur in stretta correlazione con la fede cristiana, riprendono senza alcun dubbio simbologie arcaiche. Anche le date di Natale e di Pasqua possono non essere indipendenti dalle celebrazioni pagane di una religione astrale. Il culto dei santi cade a proposito per sostituire quello di dei, semidei o geni. Infine, numerosi templi pagani furono trasformati in chiese. Era inevitabile dal momento che il cristianesimo penetrava nel mondo, ed essi potevano costituire un pericolo per il monoteismo rigido. La fede di molti cristiani, la cui formazione nella verità rivelata era scarsa o imprecisa, era fortemente impastata di vane superstizioni. Il cristianesimo poteva ritenersi sufficientemente armato contro un ritorno dell’idolatria, per far fronte a tale pericolo e mantenere intatta, nonostante le concessioni di cui si è detto, l’autentica fede in un solo Dio. Per questo furono autorizzate le statue e le immagini che continuarono a sostenere la devozione dei fedeli nonostante i moti iconoclasti che divamparono in particolare nella chiesa bizantina e più tardi, con la Riforma protestante, in occidente.
Divenuta ufficiale nell’impero, la religione cristiana si trovò di fronte un altro pericolo: il gusto della ricchezza e del fasto, il gusto del potere. In Oriente il Cristo Pantocrator, in maestà nella gloria di Dio Padre, fu oggetto di un culto ricalcato sulla magnificenza dell’etichetta imperiale, del quale ci da una idea Costantino Porfirogenito nel suo Libro delle Cerimonie. La liturgia di san Giovanni Crisostomo, che è quella della Chiesa Ortodossa d’Oriente, greca e slava, e che è tutt’ora osservata dai cattolici melchiti (il cui nome, derivato da melek o malik, il re, evoca il Basileus di Costantinopoli), conserva ancora oggi tale maestosa grandiosità. Ma nulla è troppo bello quando si tratta di celebrare il Dio unico, sovrano di tutto il creato. Anche la Roma del Rinascimento ostenta una grande opulenza, in questo caso però molto più sospetta, poiché qui non si può chiamare in causa l’orgoglio di un potere imperiale deciso a dettar legge alla Chiesa: questa volta, i soli responsabili sono il papa e il suo entourage. Se si passa in Spagna, la magnificenza raggiunge l’eccesso. Ne danno un’immagine folclorica impressionante le feste della Settimana Santa a Siviglia. Parallelamente si è conservato e sviluppato uno spirito di povertà, di semplicità e di umiltà, che ha assunto forme diverse. La prima è la spiritualità del deserto, con san Pacomio, sant’Antonio, san Paolo Eremita, e consiste nel fuggire il mondo e incontrare Dio nella solitudine. si tratta di una concezione completamente diversa della religione, forse fondata su un ricordo della storia religiosa biblica, nella quale il deserto ha un ruolo tanto importante. Assistiamo al nascere e al diffondersi in Occidente del monachesimo, con san Benedetto e la sua regola: una vita di ubbidienza, di preghiera, di penitenza e di lavoro. I monaci recitano l’ufficio e praticano la meditazione, ma si dedicano anche a dissodare e coltivare la terra, pur conservando una vita intellettuale fatta di studio e di riflessione. Più dei fasti troppo vistosi della Chiesa, in cui alcuni vedranno la mano di Satana, è probabilmente l’operato dei monaci che contribuisce soprattutto a formare nei fedeli un autentico spirito cristiano. Certo, vi furono periodi cupi, durante i quali i monasteri, e le abbazie con i loro benefici, cedettero alle tentazioni. Oggi però, in un momento in cui tutto vacilla, è ancora verso un rinnovato monachesimo che molti giovani si orientano. Perché non si può servire due padroni: Dio e Mammona.

(40)

Loading