Laura BaldoRacconti Brevi

Canzone d’inverno.

Il vecchio posò la chitarra. Si strofinò le mani per riscaldarle e gettò un’occhiata alla custodia aperta e alla manciata di monete che conteneva, sparpagliate sul velluto nero come stelle in un cielo avaro. Mentre fletteva le dita deformate dall’artrite, osservò il via vai di gente. Gli occhi quasi ciechi distinguevano solo un turbinio sfocato di sagome in movimento, con qualche sciarpa o berretto vivace a interrompere la monotonia. La maggior parte delle persone lo scalzava senza alzare gli occhi, altri si spostavano apposta, voltando la testa verso il negozio di borsette di fronte. Prese un sorso dal cartone di vino, si asciugò un rivolo dalle labbra e lo rimise dietro la schiena. Lo beveva solo per scaldarsi. La temperatura stava calando in fretta, e presto non gli sarebbe stato più possibile trascorrere ore a suonare sul marciapiede, né dormire all’aperto. Cercò di scacciare le immagini del rifugio per senzatetto, con l’odore aspro di miseria e disperazione che ammorbava il dormitorio e avvelenava perfino i sogni. Più dell’odore o della compagnia, lo spaventava l’impossibilità di continuare a esercitarsi senza venire sommerso da richieste stizzite di far silenzio. E se non poteva suonare, non gli restava nient’altro.

Una parte di lui sperava di trovare una soluzione diversa, anche se negli ultimi tre anni non ci era riuscito. Un’altra parte immaginava che dovesse esistere un Dio anche per i vecchi musicisti falliti, e magari, se l’avesse pregato abbastanza, l’inverno lo avrebbe reclamato prima che lo facesse l’ospizio dei poveri.

Mentre si aggiustava la chitarra sulle ginocchia, una donna quasi gli finì addosso, ma lui non mosse un muscolo: se l’avesse investito forse si sarebbe sentita abbastanza in colpa da lasciare un paio di euro; un altro brick di vino dal discount dietro l’angolo, o un panino… il suo stomaco brontolò a quel pensiero, ma lo ignorò e si grattò la barba grigia e ispida, che era insieme maschera e biglietto da visita. Fletté le dita e accarezzò le corde, attaccando uno dei suoi brani preferiti: Gute Nacht, di Schubert. Anche lui di tanto in tanto sognava di essere un viandante, di partire alle soglie dell’inverno e lasciare tutto dietro di sé, solo per il bisogno di andare. Ma la verità era che le sue gambe non l’avrebbero portato nemmeno fino alla fine della città, e non aveva alcuna ragazza a cui scrivere “buona notte” prima di lasciarla. L’unica che aveva amato abbastanza da sposare, nei giorni felici in cui la sua carriera di concertista era all’apice, se l’era lasciata indietro molto tempo prima. Era certo che lei ne fosse stata sollevata: negli ultimi tempi non faceva che dirgli che non voleva un ubriacone come padre per sua figlia. Non c’era niente di romantico nel passare da un ponte a un ospizio, cantando agli angoli delle strade per racimolare quel tanto da sopravvivere. Forse per questo, nonostante la sua voce fosse ancora passabile, solo un po’ arrochita dal fumo, non se la sentiva di cantare. Le uniche frasi che pronunciava in un giorno erano al solito “Dio la benedica” o “Può metterci altri 50 centesimi di prosciutto?”.

La chitarra poi non era lo strumento migliore per la musica classica, ma era il massimo che avesse trovato. L’aveva avuta da una associazione di beneficienza, insieme al cappotto ormai logoro. Alla sorte non si guarda in bocca, quindi aveva adattato il proprio repertorio e aggiunto qualche canzone moderna. Per fortuna a quell’epoca la sua vista gli permetteva ancora di leggere gli spartiti. Ormai doveva accontentarsi di quel che sapeva a memoria. Mentre attaccava la seconda strofa del lied, dei passi si fermarono, e poco dopo qualcuno iniziò a cantare. Anche se non la vedeva bene in faccia, la voce da soprano era quella di una donna matura, un po’ roca e incerta. Fu tanto sorpreso che la sua mano si fermò, facendo stonare le corde. Subito anche la donna tacque, ma non se ne andò. Il vecchio attaccò la strofa successiva e lei si unì di nuovo. Altre persone si fermrono, incuriosite: un cerchio di volti resi ancor più sfocati dal vapore del loro fiato nell’aria gelida della sera. Udì qualche timido battimani e il tonfo di tre o quattro monete. Lui si concentrò sulla donna, che aveva allungato la mano per lasciar cadere nella custodia qualcosa che non emise alcun rumore. La voce di lei gli sembrava familiare, e aveva acceso un barlume di curiosità tra le nebbie dense della sua rassegnazione. “Aspetti signora…” iniziò. Lei però si stava già allontanando, e presto si confuse nella massa caotica di passanti e nell’alone dorato delle luci natalizie. Era trdi, e il freddo gli rendeva sempre più difficile suonare, così radunò le monete per metterle al sicuro nel cappotto. Fu sorpreso nel trovare un rettangolo di carta. Dapprima trattenne il respiro, con la speranza che fosse una banconota, ma la carta era troppo liscia. Un po’ delus, lo ficcò in tasca, ripose la chitarra nella custodia e si alzò, barcollando un po’ sulle gambe irrigidite. Giunto sotto il cavalcavia, dove dormiva nella bella stagione, passò in mezzo ai giacigli improvvisati fino a raggiungere Mario, che aveva ancora una vista buona.

“cavolo” esclamò l’uomo, quando gli mostrò il pezzo di carta. “Cosa? Che c’è scritto?” “Mille euro c’è scritto. Porca miseria…”. “Mille che?”. “Non è un biglietto, è un assegno, scemo. Dove l’hai trovato?”. Il vecchio rimase senza parole, si limitò ad allungare la mano per riprenderlo. Alla sua mente si affacciò l’immagine di se stesso, un vecchio sporco e male in arnese, che si presentava in banca per riscuoterlo. Forse si sarebbe trovato a dover convincere la polizia che gliel’avevano dato come elemosina. Sorrise, al pensiero, e a quel movimento inusuale le sue labbra si riempirono di crepe, come argilla secca. “Se riesci a incassarlo, almeno offri da bere”. Il vecchio mugugnò qualcosa in risposta, mentre ripensava alla donna che doveva aver lasciato l’assegno. Magari era una di quelle riccone un po’ svitate a cui piace fare regali casuali ai bisognosi. C’era anche la possibilità che l’avesse lasciato cadere per sbaglio, al posto di una banconota. Tenne via l’assegno, ma continuò a sperare che la sconosciuta tornasse. Nei giorni seguenti suonò con più convinzione, sempre con un orecchio teso a percepire passi che si fermavano. L’aria nel frattempo si era fatta più pungente, ma decise che avrebbe resistito almeno fino alla vigilia di Natale, perché era un peccato non sfruttare lo spirito natalizio, nonché l’ingrossarsi stagionale dei portafogli. Il via vai si era intensificato, così come l’esuberanza delle voci e lo splendore delle luci lungo la via,  ma anche le stelle nella sua custodia aumentavano, raggruppandosi in piccole galassie. Da qualche parte veniva l’eco di una musica natalizia suonata al violino. Il musicista non era molto esperto, ma probabilmente era più giovane e vivace di lui. Resistette per un po’ alla tentazione di competere, ma quando un bambino disse ad alta voce che voleva sentire Bianco Natale, si rassegnò e attaccò la melodia. Fu allora che la voce si fece udire di nuovo. La gente intorno a lui si girò per vedere chi cantasse, e la donna ne approfittò per venire più avanti. Il vecchio si impose di continuare a suonare, anche perché il bambino si era unito, e subito dopo lo fecero un altro paio di persone. Alla fine ci furono applausi e risatine, prima che molti si disperdessero per continuare i loro acquisti. Temendo che la sconosciuta potesse dileguarsi un’altra volta, guardò diritto verso di lei. “Signora, l’altro giorno mi ha lasciato un assegno cospicuo. Mi sentirei più a mio agio se sapessi perché”. Dopo un lungo momento di silenzio, la donna parlò, con voce bassa e riluttante. “Ho studiato canto da piccola, ma senza molto successo. Forse perché non è mai stata una vera passione, era mio padre che ci teneva. Mio figlio Lucio invece è molto dotato. Sta facendo una brillante carriera, lo chiamano nei teatri di tutto i mondo: Vienna, New York, Londra. Ha deciso di accantonare parte dei guadagni per gli ex musicisti in difficoltà”. “Allora è per questo che mi ha dato l’assegno?”. Gli parve di vederla scuotere la testa. “Parlando con vecchi musicisti in pensione, Lucio ha saputo che uno di loro aveva suonato con suo nonno e a iniziato a fare ricerche, scoprendo che l’ultima volta era stato visto qui qualche anno fa. Ho dovuto confessargli che non era morto quand’ero piccola, come gli avevo detto”. Il vecchio aprì la bocca per domandare, ma capì che non ce n’era bisogno. “Sono venuta a cercarti solo per lui, ma dopo aver scoperto come vivevi ho pensato che forse Lucio avrebbe preferito non conoscerti. Potrò almeno dirgli in tutta sincerità che il suo assegno è andato a un vecchio musicista bisognoso”. “Leonora…” mormorò, e quel nome pareva cavato a forza da un cassetto sigillato. Sua figlia però non gli prestava più attenzione: si era alzata il bavero del cappotto e si era già avviata lungo il marciapiede. Lui prese un sorso di vino e si strofinò le mani, mentre rivedeva quelle stesse dita, con quarant’anni di meno, che pigiavano tasti pr accompagnare i vocalizzi di una bambina di nove anni. Allora era un uomo diverso, con una famiglia, una carriera, e un sacco di ambizioni. Le stelle del suo cielo erano fatte di sogni, non di monete.

Ma in qualche modo era riuscito a far naufragare la propria vita all’angolo di una strada.

Tastò la tasca per assicurarsi che l’assegno ci fosse ancora. Con esso avrebbe potuto pagarsi un posto caldo dove passare l’inverno, cibo decente e medicine. Il Dio dei musicisti spiantati avrebbe dovuto attendere un po’, prima di reclutarlo nella sua orchestra celeste.

Decise di suonare un’ultima canzone prima di andare.

Laura Baldo.

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