Non tornerò ad abitare in città
Da lettore mi piacciono le scritture che trasformano le città, i borghi, i piccoli centri, in scenografie letterarie. Mi piace la trasfigurazione di un luogo, mostrandolo misterioso e inconfondibile.
Dostojevskij con San Pietroburgo, Joyce con Dublino, Kafka con Praga e innumerevoli altri abbinamenti definitivi hanno fissato l’alleanza tra geografia e letteratura.
Nelle scritture sacre leggo di Gerusalemme. Le più opposte sentenze pronunciate dai profeti la rendono ombelico della terra, nodo di una separazione dal cielo per atto di nascita.
Mikhà/Michea circa lo spopolamento “ Tziòn a campo sarà arata e Gerusalemme di rovine sarà e la montagna del tempio altura di foresta” (3,12). Zakharià/Zaccaria al contrario: “ Perciò così ha detto Iod: Sono tornato a Gerusalemme in commozione, la mia casa sarà costruita in essa”. (1,16). “Esulta, rallegrati figlia di Tziòn poiché eccomi vengo e abiterò in mezzo a te”. (2,14).
Nato a Napoli ho sentito dire del luogo le sperticate ammirazioni e gli accaniti disprezzi ho avuto addestramento laico e letterario all’impatto tra un luogo e i suoi commentari.
Gerusalemme resta paradigma inarrivabile di quanto si possa caricare di responsabilità il perimetro di un luogo abitato. Tre monoteismi, con le loro varianti interne, l’hanno proclamata sede, nervo scoperto di loro fervori in contrasto.
Città di Ievusei, popolo stanziato prima della presa di Davide, provvisoria come tutte in quell’area, Gerusalemme/Ierushalàim porta nella radice del nome il luogo di due paci. Sono state precarie e brevi, ma almeno le ha invocate nella scrittura delle sue lettere.
Ho visto le sue mura dal di fuori, passeggiando alle prime luci con lo scrittore israeliano Amos Oz, un inverno di molti anni fa. Lui ha vissuto l’ultima parte della sua vita in un piccolo centro nel deserto del Neghev, io la sto vivendo in campagna. Abbiamo abbandonato le città leggendarie. Non tornerò ad abitare in nessuna. Molti giovani hanno fatto e stanno facendo trasloco verso campagne e vallate, cercando pieno impiego delle loro energie produttive. L’agricoltura non intensiva è diventata vocazione, incoraggiata anche dall’oppressione dell’epidemia. Non cercano il loro posto in un ritorno al tempo precedente, un’arcadia perduta. Sono al contrario pionieri di un avvenire investito nella vitalità del suolo, nel tempo scandito dal ciclo della terra. anche per loro le città sfumano nei ricordi, nelle pagine delle letterature.
Di Gerusalemme mi resta la nitida immagine di un cammello accovacciato all’ombra di una tamerice, sul Monte degli Ulivi che non ne ha più nemmeno uno.
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