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Le solitudini aumentano

La solitudine, con i suoi tanti volti, molti dei quali sconosciuti, nascosti e di proposito evitati, è una realtà ben nota nel mondo d’oggi. Con una riconosciuta accelerazione in tempi recenti, quando il Virus ha confinato tante persone dentro le quattro mura di casa, con spostamenti limitati, soprattutto quelli dettati da impegni occupazionali o uscite per esigenze di carattere personale o alimentare. Anche per le attività sportive, di gruppo o personali, professionali o di puro svago, le limitazioni sono la regola più seguita, anche se le variazioni son ben note da nazione a nazione. Si rimane sempre più soli: o all’ interno della propria famiglia, anche quando questa accusa disagi profondi; o proprio e sempre soli: se stessi come unica compagnia!

Il romanzo “Something to live for = Qualcosa per cui vivere” è stato recentemente tradotto in italiano, oltre ad essere già stato presentato in altre 20 lingue e programmato per diventare una serie televisiva. E’ la storia pensosa e penosa di un becchino di Londra che non poche volte è chiamato a dare sepoltura anche a coloro che risultavano senza parenti, amici o conoscenti. Con nessuno al proprio fianco e, a volte, nullatenenti, nel qual caso il municipio interveniva per farsene carico. La pratica è nota come “funerale di povertà”.

Sebbene il suo contratto di lavoro non lo preveda, Andrew, il personaggio in questione, fa atto di presenza al funerale, come segno di rispetto verso chi se ne va senza l’ombra di un familiare, un amico o un conoscente accanto. Soli: il feretro trasportato dal carro funebre e, a corta distanza, Andrew in persona. Solo.

Sono situazioni in costante aumento a Londra e in tutto il Regno Unito. Nel romanzo, Andrew si chiede quanto tempo durasse, prima della morte, tale condizione di isolamento e abbandono totale. Si lascia intravvedere la crescente sterilità dei rapporti umani per una umanità che risulta distratta e disattenta sia con i morti che con i vivi. In ogni capitolo del libro l’autore ripercorre la storia di uomini e di donne morti soli, quasi questi non fossero persone a tutti gli effetti. E si domanda e rivolge lo stesso quesito al lettore: Interveniamo sempre quando il danno è già fatto, capisci? Insomma non sarebbe meglio fare qualcosa perché queste persone abbiano un po’ di compagnia, entrino magari in contatto con altri nella stessa situazione, invece di sprofondare sempre più nell’isolamento?

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