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Tigri da casa. Pantera.

di Andrea Cantaluppi

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Nero, a pelo lungo e con due occhi gialli che di notte illuminava la stanza.

Un giorno, suonano alla porta con una certa impazienza. Apro e vedo Fabrizio, Claudio e un gruppetto di amici come ala e scorta di un tesoro appena trovato.

Fabrizio, mio figlio più grande, teneva nascosto sotto il giaccone, un gattino spaurito e con una mano portava una scatoletta di carne in scatola.

Mi domandò implorante se potevamo tenerlo.

Figuriamoci se proprio io avrei risposto negativamente. Provai a dire che forse mamma non era proprio contenta. Mi rispose che a mamma ci avrebbe pensato lui.

Così fece ingresso nella nostra famiglia quel nuovo insegnante di comportamenti umani e felini.

Fabrizio e Claudio erano attratti da quell’essere che giocava, saltava, dormiva, mangiava, distruggeva, assaltava, con tale spontaneità che loro lo presero a studiare.

Confrontarsi e accettare gli altri, é sempre un bene; capire gli animali e rispettarli per quello che sono, completa questa crescita verso il diverso.

Mi osservavano mentre lo facevo giocare muovendo i piedi sotto le coperte del letto e lui mi assaliva come se avesse scoperto chissà quale nemico.

Erano affascinati dal suo modo di appiattirsi a sogliola, prendere lo slancio sulle zampe posteriori facendo quel caratteristico movimento di scodinzolamento del sedere per prendere lo slancio contro il nemico.

Ridevano divertiti nel vederlo annusare le mie scarpe per poi caderci dentro lottando contro i lacci, temibili serpenti.

Giocava con tutto tranne che con i giocattoli “pensati” per loro. Mi domando: ma come si fa a “pensare” con che cosa preferiscano giocare gli animali?

Come si può pretendere di commercializzare la felinità di una tigre in miniatura?

Un gatto, o un qualsiasi altro animale che si tiene in casa, per me, come principio, non  si deve snaturare dalla sua essenza. Se, dopo passata l’infatuazione del momento ci si accorge che non si è in grado di tenere un animale, non si può pensare di sottometterlo ai propri voleri e castrarlo nel suo modo di essere così come si fa con i figli. Se poi l’animale in questione è un gatto, a tutto si può pensare tranne che a farlo diventare un robottino. Altrimenti ci sono tanti pelusche da mettere immobili sul divano come surrogati di quelli veri. Non sporcano, non consumano, non rompono. Così iniziano ad assomigliare a quella realtà virtuale, così modificabile nella sua impalpabilità.

Un gatto ti piace e lo tieni perché vuoi vederlo e viverlo e ti dimostra il suo carattere ribelle ma dolce, infingardo e sdegnoso ma che poi ti viene a cercare perché è da te soltanto che si fa prendere in braccio e coccolare.

Lo senti come un privilegio concesso soltanto a te. Tu sei il suo preferito. Da te soltanto si fa strapazzare. Ti ha eletto e prescelto a suo schiavo e devi sentirtene onorato.

E’ stato domesticato (forse) migliaia di anni fa, ma è sempre rimasto con il suo carattere indipendente, ecco perché, quando riesci ad entrare in sintonia con lui, ti senti soddisfatto. Frequenti l’essenza dell’indipendenza ed è proprio questo che ti affascina. Che gatto sarebbe se non cercasse lucertole, che non si affinasse le unghie contro ipotetici nemici proprio là, su quel mobile, dove non dovrebbe?

Non si deve modificare. E’ fatto così: prendere o lasciare.

E se vogliamo ammettere la realtà, il gatto è l’unico animale che ha addomesticato l’uomo.

Non si può ricattare con minacce o con sospensioni di cibo; non si indirizza a fare questo o quello con la forza. Se si cerca ciò si è sbagliato animale, e forse in difesa anche per i soggetti che si sottomettono per fame o per catena fino ad incattivirli, suggerirei ai proprietari di riflettere su se stessi.

Ti piace proprio perché si ribella e poi ti cerca; si rivolta come Spartaco e ti si sdraia sui piedi; ti chiede da mangiare e se ne va soddisfatto senza ringraziare; si arrampica veloce come uno scoiattolo sugli alberi e poi ti chiama disperato perché non è capace di scendere.

Il Pirata è cresciuto libero e indipendente, se ne andava per giorni, andava a caccia o rispondeva a richiami amorosi che sentiva fino a due chilometri di distanza, ma era a casa che tornava.

Noi stavamo in pensiero e lui ci ringraziava strusciandosi con tutti, come per segnalare che non dovevamo preoccuparci, lui era un guerriero nato e non gli sarebbe mai capitato nulla.

Andava ad occupare il suo trono personale che, nelle sue assenze, mi permetteva di usurpare e ronfava soddisfatto.

E di battaglie ne ha combattute!

La veterinaria gli ha dovuto ricostruire il tessuto di un’orbita oculare dopo che gli hanno tolto un occhio. Fu quello il risultato di una battaglia combattuta a forze impari tra lui e un gruppo di cornacchie che l’ hanno assalito e ferito.

Da quel giorno somigliò sempre di più a un bucaniere, gli mancava solo la benda sull’occhio.

In una zuffa con altri gatti ne uscì fuori con un orecchio mozzato.

Da gatto di classe, a cinque stelle, si ridusse nell’aspetto a pirata da osterie malfamate. Era sempre più coccolato tanto più riportava ferite come medaglie al valore tigresco.

Da Pantera diventò il Pirata.

Gli piaceva arrampicarsi sulla mia spalla, si sistemava a cavallo dell’omero guardandomi le spalle in caso di attacchi a sorpresa e si strusciava sulla mia guancia facendomi le fusa di ringraziamento.

Lì si sentiva protetto e me lo diceva mettendomi la punta del naso perennemente umida dentro l’orecchio facendomi il solletico.

Con il tempo riuscì a farsi accettare anche da mia moglie che, sprezzantemente lo chiamava:”Quello”.

Vero è che nei primi tempi ne aveva combinata una veramente grossa che mio figlio Claudio, il suo unico  terrore umano, cercò di mascherare prendendosi la colpa al posto suo.

Andò così: avevamo messo nel salone le tende nuove e mia moglie era finalmente soddisfatta nel vedere completato l’arredamento.

Lui arrivò ad osservare quel trambusto standosene buono in disparte, se si fa eccezione del fatto che ci rubò il metro per poterselo arrotolare in una battaglia campale.

Stavamo a rimirare il lavoro fatto, era venuto bene e mia moglie disse che sarebbe uscita di li a poco e andò a cambiarsi l’abito.

Lui si era posizionato a metà salone e guardava cercando di capire cosa fosse quella novità che non permetteva di guardare più fuori.

Bastò un leggero alito di vento a muovere la tenda e iniziò il finimondo.

Nel vedere quello sventolio subito si acquattò per prendere lo slancio, partì di colpo aumentando la velocità e, taratàn taratàn taratàn, arrivato sotto quel mulino a vento spiccò un balzo e si afferrò alla tenda appena montata.

Rimanemmo stupiti dal gesto e dalla velocità con cui lo aveva eseguito.

Tacemmo per non allertare la padrona di casa e andammo da lui per farlo scendere nel modo più delicato possibile, e lui?

Lui si dondolava beato con questa nuova altalena e non aveva nessuna intenzione di scendere.

Ci guardava contento e stupito da quelle nostre manovre per tirarlo giù.

I segni delle unghie erano evidenti, e mentre cercavamo in qualche modo di restringerli, ecco che arrivò tranquilla la regina che si preparava ad uscire.

Ci guardò e ci disse cosa avevamo, perché eravamo agitati.

No niente, rispondemmo, stavamo cercando una cosa.

Si avvicinò e vide che nella tenda qualche cosa non andava, poi urlò.

Chi, chi era stato a tirare quei fili, e quei buchi chi li aveva fatti? Ci scommetto che è stato “Quello”, il vostro protetto! Adesso basta o lui o io.

Fu in quel preciso momento che Claudio, timido quanto mai, si assunse la colpa. Disse che con le forbicine voleva tagliare un pochino la tenda. Il pirata non era stato, non aveva colpe, non lo doveva cacciare di casa. Chi gli avrebbe dato da mangiare lì fuori? E si prese una bella strigliata, ma il pirata rimase a giocare con noi.

A distanza di anni mia moglie ancora non è convinta di cosa sia esattamente accaduto quel giorno.

Leggendo queste righe finalmente lo scoprirà.

Lui, il sornione, tentò manovre di avvicinamento con quella urlatrice umana, ma lei lo scacciava. Non demordeva e le si avvicinava da dietro impennando la sua maestosa e vaporosa coda più gonfia del pennacchio del cappello triangolare dei carabinieri, ma lei, anziché essere contenta, lo scacciava ancora di più perché le faceva il solletico alle gambe.

 

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