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Dunque, un minuto per morire

Autore: Giovanni Di Sarno

Dunque, un minuto per morire.
Forio, estate 2012
Mi svegliai confuso dalle grida dei miei figli che litigavano in giardino. I ragazzi si stavano accusando a vicenda per un ciondolo smarrito in piscina, senza decidersi di chi fosse la colpa. Pur di ritornare a dormire, imboccammo il viale tutti insieme. Al bordo della vasca mia moglie prendeva il sole sulla sdraio mentre Toby, sotto il tavolo con la lingua penzolante, cercava riparo dall’afa. Erano le tre di un pomeriggio d’agosto, l’ora della siesta anche per le cicale. Il pendaglio a forma di ancora era da qualche parte vicino alla griglia di filtraggio, mi spiegò mio figlio. Entrai in acqua e dopo una boccata d’aria mi immersi. Il fondale era sgombro, restava la botola che, plausibilmente, aveva aspirato l’oggetto all’interno. Venne via docilmente ma nel piccolo vano non c’era nulla a parte dei residui granulosi. Però c’era il tubo, o meglio la bocca di aspirazione che, come seppi qualche giorno dopo dall’amministratore, era servita da due elettropompe situate di fianco al gabbiotto degli attrezzi. Neanche il tempo di avvicinare la mano e il braccio fu risucchiato violentemente all’interno, una cosa talmente rapida che non mi diede scampo. Per primo registrai il contraccolpo nello stomaco, una lucida consapevolezza mortale che mi ghiacciò la carne, poi fu il silenzio, come un sipario strappato dalla mano di un gigante per svelare un fondo senza colore, una natura morta. Il braccio aveva sigillato perfettamente l’ingresso del tubo, come il più gagliardo tra i tappi di champagne, e la prima reazione rabbiosa di tirarlo via non mi fruttò neanche un millimetro di speranza. Era veramente una bruttissima storia. Quanto tempo era passato dal momento in cui mi ero immerso verso quel delirio in essere? Trenta secondi? Cinquanta? Non faceva una grande differenza, dovevo darmi da fare, pensare qualcosa, e il tempo era quello che era. Da bambino mi capitava di torturare le lucertole, le catturavo vive per poi mutilarle, o annegarle in un secchio. In acqua, quei piccoli rettili senza colpa, davano il meglio di se resistendo parecchi minuti, sicuro retaggio della loro evoluzione anfibia. Io non ero una lucertola ma allo stesso modo tenevo la bocca e le narici ben chiuse, cercando di rendere il più prezioso possibile la residua riserva d’aria. Sentivo la carne compressa in una morsa anatomica, mentre dal fondo della piscina vedevo le sagome indistinte dei miei familiari che, ignari, aspettavano che emergessi. In cambio non avvertivo nessun sintomo di panico, nessun disordine mentale, nessuna vertigine incontrollata. Con grande difficoltà riuscii a piantare un ginocchio sul bordo del tombino e mi posizionai come uno scattista sulla linea di partenza. La mia idea era quella di far leva, avere una base su cui spingere. Ma capii facilmente che tutto era vano, non succedeva niente, sarei morto proprio lì, sul fondo della mia piscina. Come di fronte a uno specchio mi chiesi: “cosa faccio adesso?”. Quegli istanti a meditare una risposta furono i più cupi e spaventosi tra tutti. Furono secondi senz’anima, senza una eco. Poi la tensione defluì improvvisamente, col braccio come un’ancora incastrata nello scoglio e il corpo libero di fluttuare senza controllo o timore. Chiusi finalmente gli occhi. L’ultima immagine fu il colore dell’acqua, azzurrata, con striature lattescenti che si muovevano al rallentatore. Seguì un tempo di pace assoluta in cui non pensavo niente, non vedevo nulla. Poi, con calma quasi indolente, intravidi la mia mano che scendeva verso la botola e infilare l’indice tra il braccio e il tubo producendo così un interstizio, uno spazio nuovo. Come se quel momento già scritto da tempo non aspettasse altro che manifestarsi, il braccio scivolò via, quasi senza importanza. E dunque, un minuto per morire è pur sempre un minuto da vivere.

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