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Qualche riflessione sulle elezioni israeliane

Dove va Israele?

“Si è alle porte della formazione del governo più a destra nella storia di Israele”: questo commento è stato il più diffuso a spoglio concluso, ed è sicuramente il più veritiero. 

Non solo torna al potere Netanyahu, il cui partito Likud è stato il più votato, ma la coalizione che lo vedrà Primo Ministro avrà una solida maggioranza (65 seggi su 120) e come componente decisiva due formazioni estremiste perfino per i canoni solitamente molto “compresivi” della stampa internazionale, i cui due leaders (Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich) non si sono fatti scrupolo di fare campagna elettorale promettendo addirittura l’espulsione degli arabi cittadini israeliani, per non parlare della totale legittimazione delle azioni violente dei coloni nei Territori Occupati (Cisgiordania): bene, questi soggetti hanno 14 rappresentanti alla Knesset (il Parlamento israeliano) e sono la terza forza parlamentare, dopo il Likud di Netanyahu e Yesh Atid dell’ex premier Lapid. A ciò si aggiunge la scomparsa dalla Knesset del Meretz, ossia la sinistra sionista, la riduzione dei laburisti ad una presenza poco più che simbolica (4 seggi), e la bassissima adesione elettorale dei cittadini arabi israeliani che ha fatto sì che, aldilà della polverizzazione delle liste da loro promosse, la presenza parlamentare del 20% della popolazione dello Stato d’Israele sia ridottissima (5 seggi).

Dietro questa fotografia ci si deve porre qualche interrogativo, con la scontata premessa che analizzare i fatti degli altri è sempre cosa rischiosa. 

Comincerei con una nota “storica”: fino alla fine del secolo scorso la scena politica israeliana era sostanzialmente suddivisa tra le componenti storiche del movimento sionista. Una forte maggioranza di impronta laburista, fondatrice dello Stato ed ininterrottamente al potere fino alla metà degli anni 70, e una componente nazionalista giunta per la prima volta al potere nel 1977 con Menachem Begin.  Questa storia è definitivamente alle nostre spalle: 4 seggi al partito che espresse i fondatori dello Stato d’Israele e i suoi  più prestigiosi rappresentanti (David Ben Gurion, Shimon Peres, Golda Meir, fino a Itzhach Rabin) sono l’esempio più evidente. Dall’altro lato la corrente nazionalista si è sempre più estremizzata sotto la guida di Netanyahu avversario di Rabin fino ad essere lui stesso scavalcato a destra dai succitati Ben Gvir e Smotrich, espressioni di estremismo ebraico confinante con il fascismo (Ben Gvir è stato discepoli di Meir Kahane le cui teorie furono definite razziste e fasciste dalla Corte Costituzionale israeliana e il cui movimento Kach fu sciolto, salvo poi risorgere sotto le attuali spoglie).

Di mezzo c’è l’incancrenirsi dell’occupazione dei Territori palestinesi, che dura da ben 55 anni e la cui soluzione è totalmente sparita dalle ultime campagne elettorali, come se non se ne volesse cogliere il dato di avvelenamento delle società – israeliana e palestinese. Nel corso di questi lunghissimi anni i coloni sono arrivati ad essere oltre mezzo milione, spesso finanziati oltreché dai Governi di destra anche da lobby americane, e sono diventati un soggetto decisivo contro ogni tentativo di smuovere una situazione incancrenita, oltreché un bacino elettorale assicurato per le forze più estremiste. E la stessa espressione “Due popoli, due Stati” che tanto spesso viene ripetuta come se si fosse ancora al giorno dopo gli accordi di Oslo (e la stretta di mando tra Arafat e Rabin sotto lo sguardo benevolo di Clinton, settembre 1993!), fa sempre meno i conti con la costante spoliazione di terreno portata avanti dai coloni con il beneplacito dei Governi, cosicché la terra teoricamente da riconsegnare al costituendo Stato di Palestina assomiglia sempre più ad un insieme di coriandoli sparpagliati che ad un territorio su cui esercitare sovranità.  Né ci sono stati – in questi anni – seri tentativi per superare lo stallo, troppo preoccupati gli USA di tenersi buono l’alleato Israele viste le tensioni della regione (Siria, Iran, Libano) e troppo appiattita  e senza visione l’Unione Europea.

Questo ha lasciato campo libero alla destra di perseguire nella sua azione, culminata nell’approvazione nel 2018 della legge fondamentale (equivalente ad una legge costituzionale, visto che lo Stato d’Israele è privo di una Costituzione formale) che definisce Israele “lo Stato degli ebrei”, in cui altri soggetti sono tollerati. Taccio per brevità cosa questo possa significare per chiunque abbia a cuore la democrazia e l’universalità dei diritti; non è però senza legame con ciò il fatto che lo scorso anno siano scoppiate rivolte “interetniche” in molte città israeliane tra – appunto – cittadini israeliani di diversa fede religiosa (ebrei contro arabi musulmani e cristiani), cosa mai vista in questa intensità e diffusione dallo scoppio della prima Intifada (1988).

Provo a tirare le somme: con queste elezioni la storia di Israele come l’abbiamo conosciuta e anche un po’ idealizzata (i kibbutz, il dissodamento del deserto, il socialismo) è definitivamente finita. Il futuro ha tinte fosche, prevale l’identità agitata come una clava contro l’altro, concepito sempre ostile e pertanto mai assunto come interlocutore. Attenzione: quando dico “l’altro” mi riferisco in generale a chi non ha le stesse idee, in primo luogo il pensiero ebraico nutrito di valori quali il rispetto per le opinioni, l’amore per la discussione, il non accontentarsi di ciò che sembra semplice, l’ironia soprattutto su se stessi. Insomma l’ebraismo come l’abbiamo conosciuto nella diaspora e nelle sue infinite declinazioni: tutto questo è – agli occhi dei nuovi governanti d’Israele, fuffa da cui liberarsi, conta solo la forza e la convinzione assoluta di essere nel giusto, a prescindere da ciò che dice il diritto (internazionale o nazionale, non importa, vedi i processi in cui è coinvolto Netanyahu…). É triste ammetterlo, ma le cose credo stiano proprio così.

Roma, novembre 2022

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