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Tigri da casa. Silvestro.

di Andrea Cantaluppi

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Stavo riprendendomi da un sonno febbroso nel lettone grande. Ero piccolo e gracilissimo. Stavo adagiato con la schiena su due cuscini più lunghi di me e da quella posizione potevo vedere un angolo di cucina. Sentivo mia madre che lavava i piatti.

Mi agitai un pochino chiamandola e guardai verso la sedia che stava sotto la finestra quando, (sognavo ancora, o stavo delirando dalla febbre?), vidi che con movimento repentino qualcosa saltava da quella sedia e balzava inaspettato sul letto.

Mi sentii mordere al lobo dell’orecchio sinistro. Incosciente e spaventato mi tirai un po’ su e sentii dondolare un qualche cosa d’indefinito che mi mordeva e mi faceva solletico da quell’insolita posizione.

Avevo un orecchino peloso che mi dondolava allegro vicino alla guancia.

Si staccò e mi salì sulla pancia facendo le fusa: era Silvestro!

Questo è stato il mio primo contatto con un felino e loro, da quel giorno, mi hanno scelto come consulente umano.

Era piccolissimo, appena svezzato e poteva benissimo essere scambiato come contro figura del suo collega di celluloide, nero con i calzettoni bianchi sempre a caccia di un pennuto giallo, un po’ antipatico in verità.

Mi guardava con lo sguardo spiritato, le orecchie appuntite e mi sfidava alla lotta.

Era il regalo di “fine malattia” che mia madre mi aveva fatto.

Lo aveva trovato in una cucciolata di una sua amica e aveva pensato che lo avrei gradito, non poteva sospettare che mi aveva regalato un pezzo di specchio dove intravvedevo il mio timido e sornione carattere.

Legammo immediatamente e per mia madre iniziarono giorni terribili.

Tra cuccioli, non si fa caso se uno appartiene agli umani o agli animali, si solidarizza subito, specialmente se c’è da combinare guai.

Era un furbastro di sette cotte. Si credeva il padrone della strada. Stava ore affacciato sul davanzale a osservare se qualche infiltrato di altre strade, stesse transitando senza permesso sul suo territorio.

Se ciò accadeva, cane o gatto che fosse, si precipitava sulle scale e sbucava come un ossesso sulla strada facendo spaventare quegli ignari passanti, e approfittando della sorpresa, li metteva in fuga.

Ristabilito l’ordine naturale delle cose, tornava trionfante a farsi fare due meritate coccole per il lavoro svolto. Il territorio era salvo e i nemici in fuga.

Ogni tanto sentivo mia madre urlare: o aveva portato qualche lucertola o qualche topolino frutto di una capacità venatoria fuori dal comune, o era passato, come su una passerella rossa, sul pavimento appena lavato.

Mi confessò spesso che non capiva il perché mia madre non gradisse quei regali. Dopo tutto lui, il re, aveva portato a Lei, la regina, il frutto della sua caccia.

No, mi diceva, gli umani non riesco a capirli, meno male che ci sei tu come interprete.

Tra noi c’era un linguaggio non scritto ne codificato. Eravamo in simbiosi e non c’era bisogno di parlare.

Uno sguardo intenso spiegava più di mille parole.

Vigeva la regola di non fare rumore per nessun motivo e il parlare l’avrebbe infranta.

Il loro conflitto raggiunse il culmine un giorno d’estate.

Non avevamo frigorifero ne soldi per metterci dentro qualche cosa, quindi era del tutto superfluo, distante anni luce dai nostri bisogni primari. Quel giorno, facendo tantissimi sacrifici, colei che mi aveva regalato quel simpatico e pestifero batuffolo d’ovatta (così diceva prima che l’infingardo si manifestasse per quello che era: un teppista !) comprò due sottilissime fettine di carne. Le aveva messe su un piatto e coperte con un altro, e in attesa dell’ora del pranzo, che con quelle rarissime e insolite fettine sarebbe diventato quello della festa solenne, le aveva messe “in fresco” sul davanzale dove lui faceva la posta al nemico.

Tragico errore logistico!

Arrivò quatto quatto e si andò a mettere sul suo punto d’osservazione.

Stavo facendo i compiti estivi come ripasso, facendo considerazioni filosofiche, del tipo che tanto valeva che la scuola continuasse anche l’estate, tanto cosa cambiava? Quando sentii l’ennesimo urlo, solo che questa volta mia madre imbracciava una scopa e correva attorno al tavolo della cucina lanciandosi poi giù per le scale.

La porta di casa nostra, finché sono rimasto al paese natio, è stata perennemente aperta e spalancata sulle scale. Io e lei ignoravamo l’uso di uno strano strumento chiamato chiave.

Silvestro correva a testa alta per non inciampare sulle fettine che aveva rubato e che teneva ben strette con i suoi sviluppati canini.

Mia madre, che gli urlava dietro minacciandolo di lasciarle, altrimenti lo avrebbe accoppato con tante di quelle botte in testa da farlo diventare scemo.

Non ebbi il coraggio d’intervenire e rimasi a guardare la scena con una finta neutralità e un malcelato sorriso.

Era tutto troppo comico: lui che correva a testa alta e a gambe larghe per la strada, lei che mi sembrava la Tata cicciona dei film con le governanti nere, con il fazzoletto legato in testa che brandiva l’arma della fatidica punizione.

Da una parte avevo rabbia perché oramai quella carne non l’avrei più rivista, dall’altra ero contento per lui, parteggiavo per quel predatore che aveva catturato quella rarissima preda.

Ma, la fame vera è così, non c’è ricompensa per tutti.

Ero mortificato per l’impresa del mio protetto e mia madre minacciò che non voleva trovarselo più tra i piedi e quindi dovevo provvedere, altrimenti sarebbero stati guai per me.

Tornò dopo due giorni come se nulla fosse accaduto.

Bello, tranquillo si rimise al suo punto d’osservazione preferito. Si  addormentò conscio del suo ritrovato ruolo di comandante e questa certezza lo tradì perché non si accorse dell’improvviso arrivo della sua nuova acerrima nemica che gli diede una spinta e lo fece volare giù dalla finestra.

Tranquilli, abitavamo al primo piano e i metri non erano molti. Corsi giù a raccoglierlo e lo trovai che faticava a camminare. Era la sua prima sconfitta. Un avviso preciso che aveva abbassato la guardia e il nemico lo aveva sorpreso e colpito.

Lo portai a casa e, a dimostrazione che hanno sette vite, si rimise in sesto, ma con un piccolo particolare: da quel giorno camminò con le zampe anteriori storte, come un vecchio cow boy.

E da quel giorno Silvestro divenne Feliciano. Così si chiamava un uomo del mio paese che aveva le gambe talmente storte che quando le teneva dritte sotto ci passava la metropolitana.

I ricordi di quel primo amico baffuto mi dicono oggi che il suo passaggio non è stato fulmineo, come i suoi improvvisi attacchi a nemici inesistenti, e impalpabile, ma che ha lasciato tracce durevoli.

Come i graffi sulla pelle e l’assimilazione di gesti felpati che mi portano a non fare il minimo rumore nei miei spostamenti in casa o sul lavoro, lui sta ancora con me e, per correttezza, l’ho presentato ai nuovi emuli che mi hanno concesso di soggiornare in casa con loro. (Si ho sempre la qualifica di consulente felino !).

Li ho avuti tutti belli, ma non perché erano i miei pensionanti, ma perché è stato proprio così.

Tutti tipicamente con il capoccione dei gatti romani. E come i loro avi che assistevano ai giochi che gli imperatori all’estivano nell’arena del Colosseo, hanno rappresentato quel carattere da sornioni, bellicosi, affettuosi, con quel tanto di snob sotto il naso, al centro dei loro sensibilissimi baffoni, che hanno tutti coloro che vengono considerati cittadini dell’Urbe a tutti gli effetti. *1 *2

Mi hanno riempito la vita senza invasioni di campo tipico dei loro nemici bavosi, e sempre con discrezione.

Non hanno mai chiesto nulla, sono stato io a sintonizzarmi con i loro appetiti e i loro momenti di follia.

Così come loro hanno rispettato i miei silenzi e la mia passione per la solitudine.

La loro filosofia gattesca mi ha insegnato che nei giorni uggiosi, e nella vita ce ne sono troppi, è meglio dormire al calduccio, domani, si cercherà di scalare qualche montagna insormontabile.

*1- Qualche anno fa il consiglio comunale di Roma ha sancito all’unanimità che tutti i gatti che si trovano sul territorio della città sono cittadini dell’Urbe a tutti gli effetti e vengono adottati, assistiti e curati. Ecco riassunto un affetto particolare verso questi felini che da sempre, a Roma, incarnano lo spirito scettico e bullesco dei suoi abitanti. Tra loro hanno sempre sopportato che quel cane fosse il simbolo ufficiale della città, d’altro canto aveva allattato i piccoli di Rea Silvia e quindi che si prendesse tutti i meriti. “Ma li veri padroni semo noantri”.

*2-A Roma c’è un detto: “nun ce trippa pe’ gatti”.

Si racconta che il primo sindaco laico dopo la prima guerra mondiale, Nathan, appena insediatosi, volle studiare in profondità il bilancio comunale. Le casse erano vuote, ed i problemi immensi. Con i suoi collaboratori stava immerso in capitoli e cifre che non si riusciva a far quadrare. Sempre più depresso, si accorse di una voce di bilancio molto strana e chiese: ” cosa significa –trippa per gatti ?“

Il segretario comunale rispose che era consuetudine dare le frattaglie, trippa e altro, ai gatti. Merce che il Comune comprava all’ingrosso al macello di testaccio.

“ Ma siamo matti?” Rispose il sindaco. “da questo momento nun ce trippa pe gatti!”

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