Damnatio memoriae
Il dieci di giugno del 1924, cento anni fa per chi se ne ricorda, all’inizio del regime fascista fu sequestrato e ucciso Giacomo Matteotti, deputato e segretario del Partito Socialista Unitario. I responsabili furono identificati dai testimoni del sequestro in un gruppo di militanti fascisti e fu chiaro e persino confessato pubblicamente che lo stesso Benito Mussolini era il mandante politico e morale dell’omicidio. Il cadavere di Matteotti fu ritrovato per puro caso solo dopo due mesi dal rapimento.
Sorridente e combattivo, queste le caratteristiche che si ricordano. Intransigente antifascista era il più deciso e fermo oppositore del regime che si stava affermando con la violenza sistematica e i brogli elettorali, le sue denunce in parlamento erano la sua condanna a morte.
Lo sapeva, ma era un combattente che amava la vita e sorrideva. Un eroe ridente, come lo sono gli eroi nelle più belle leggende. Per questa ragione era il più temibile tra i nemici di una dittatura che si stava imponendo con la sghignazzante brutalità di chi vestiva di nero e predicava la morte.
Per tutto il ventennio della dittatura fascista nominare Matteotti, conservarne un ritratto, e in particolare ricordarne l’uccisione, era severamente vietato e punito.
Matteotti doveva sparire dalla memoria collettiva degli italiani. La damnatio memoriae era il peggior castigo che il senato romano imponeva a chi doveva essere dimenticato per le più svariate ragioni, non ultime e non solo quelle dinastiche.
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