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Il Vangelo secondo Alda Merini

A dieci anni dalla morte: 1 novembre 2009

Cara Signora Merini,
ci manca molto la sua voce. Nonostante dieci anni di quotidiana complicità, di dettature, di canzoni, di confidenze. Ci siamo sempre dati del lei.
Io ero don Chiodo, lei la Signora Merini. Ho affidato ad un libro che uscirà a giorni dall’editrice Claudiana le mie riflessioni su di lei e su quel vangelo che lei ha raccontato con la sua poesia. Si intitola “Il Vangelo secondo Alda Merini”.
Ho aspettato 10 anni per parlare di lei. Non ho voluto raccontare gli aneddoti, che pure ci sono stati, commoventi e divertenti. Ho lasciato che il nostro incontro scendesse giù giù nella mia anima, che si distillasse, che insomma diventasse un piccolo canto di restituzione al gande canto della sua poesia e della sua amicizia. Manca molto signora Merini. Alla gente comune. A quelli che di libri magari ne hanno pochi in casa. Ma che la sua poesia la leggono, la cercano. Come un fiore da regalare, come un bicchiere d’acqua quando si ha sete. Come un “rimedio” alchemico al mal di vivere.
Quando alla fine della guerra lei rubò poesia, prendendo di nascosto Elegie Duinesi di Rilke da una libreria milanese, ci insegnò ad avere fame di bellezza. Che se manca, la terra muore. Dentro un verso si può custodire un albero, il Carro minore, magari quello Maggiore due versi. Che la parola salva, custodisce dalla bufera della banalità che si abbatte sulle nostre città. Ma lei piace, Signora Merini, perché la poesia l’ha rischiata con la vita. Non solo i dieci anni di manicomio, al Paolo Pini di Milano o a Taranto, ma il rischio quotidiano che ha corso fino all’ultimo giorno. lei che era “minima e immensa” come dice un suo antico verso, era la parte di noi che non avevamo incontrato, quella che sta seduta su un burrone ma non rinuncia ad annusare una rosa. la parte di noi che si innamora ogni giorno. la parte segreta del nostro dolore, la ferita della nostra umiliazione. Lei è il sonnambulo che vive in noi e tutte le notti vorrebbe camminare sul filo teso tra una parente e l’altra della terra. lei è stata la poeta delle metamorfosi: il bruco che diventa farfalla. Ecco perché è stata una poeta di popolo. Perché ogni popolo desidera ritrovare il suo volo. La trasformazione poetica diventa allora una trasformazione politica.
Mi ha dettato in un giorno speciale:
“ Se dovessi fare un collage del tuo amore
metterei una soglia di baci ardenti
una finestra rotta
e un passero che canta sul balcone
non c’era niente dentro il nostro amore
c’era soltanto un intero universo”.
(25 gennaio 2003)

Mi è capitato spesso a diverse ore del giorno e della notte, di essere il piccolo scribacchino della sua poesia. Era condividere in presa diretta la nascita della poesia, come credo, possa essere la nascita di una stella, di un arcobaleno, di un pensiero nuovo, di una insperata carezza…

Una volta che dovetti scappare dalla sua casa, per poter prendere l’ultimo treno per Verona mi gridò dalle scale che non era possibile abbandonare “ il più grande poeta d’Italia, per quattro insulse beghine”. Poi appena arriva “ nel devoto Veneto” come diceva lei, già suonava il telefono e dettava:
“Se tu non venissi come un vento
portato da uno strano uragano
senza timbro di sacrificio
quasi mandato via dalla città
io ti avrei preparato
un orto piccolo piccolo
e forse un samoval
poi ti avrei portato con me
di fronte alle montagne
e lì avremmo mangiato il giorno
come una mela fresca
ma non è stato così
hai sempre alle calcagna
gli orari dei treni
e mi sembra che tu scappi
rincorso da mille vocianti cani”.

Signora Merini, starle accanto è stato un dono inestimabile. Mi ha insegnato a leggere la vita in modo diverso. E anche il vangelo. Quel suo Gesù dal cuore di donna. Che immagine rivoluzionaria, solenne e commovente che disegna il Gesù meriniano, il quale “ trascinava la sua lunga veste che pareva lo strascico da sposa. Infatti lui era la vera sposa del Cantico”. La figura del Cristo con lo strascico da sposa che avrebbe potuto trovare spazio nell’immaginario di Pasolini, di Fellini o di Ermanno Olmi.
Non c’è niente di grottesco in questa immagine, ma anzi l’intima intuizione del cuore femminile di Cristo Un Gesù di carne, che non inchioda il piacere alla croce, ma piuttosto lo libera. Come scrive un “Padre mio”, un’intera opera dedicata a un amico per lei molto caro, per me un Maestro, David Maria Turoldo.
Signora Merini, sono passati 10 anni, ma io sento ogni sera la sua voce nei miei orecchi, il suo canto che mi tiene sveglio il cuore.
La sua poesia smuove la pietra del sepolcro e fa saltare in aria la morte.
La sua poesia rimane sempre un inizio di rivoluzione.
Marco Campedelli, narratore, burattinaio e insegnante, consegue il dottorato di teologia all’Ateneo Sant’Anselmo di Roma con una tesi sul rapporto tra poesia e rito. Scrive la prefazione del libro postumo di Alda Merini, Santi e Poeti. La poetessa milanese dedica a lui e alla memoria di Giorgio Gaber il libro: La clinica dell’abbandono.

(199)

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