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Dopo le ultime elezioni cosa è diventato Israele?

Apartheid israeliano
Apartheid israeliano

C’ho messo una settimana a riprendermi dai risultati delle elezioni israeliane, e neppure ora credo di riuscire a padroneggiare la tempesta di emozioni e riportarle sotto il controllo della ragione. Perché sono tante, e per certi aspetti decisive, le questioni che mi si affastellano in mente.
Innanzitutto, quelle più facili: nonostante condizioni “oggettivamente” a lui sfavorevoli, Netanyahu ce l’ha fatta per la quinta volta. Per un elettore italiano di sinistra, verrebbe facile la reazione: benvenuti nel club! Qui in Italia non vinciamo dal 1994, eccetto due brevi parentesi prontamente chiuse per prevalenti nostre responsabilità! E tuttavia non abbiamo smesso, e non smettiamo, di mantenere ferme le nostre convinzioni, di mantenere in piedi un’idea alternativa alla condizione drammatica di questo mondo, non importa quanto difficile questo sia nel progressivo peggiorare delle condizioni esterne (razzismo, crisi economica e povertà, ecc.).
Poi ci sono stati gli “aiutini” esterni, Trump in primis, con lo spostamento unilaterale dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’assenso all’annessione del Golan, ecc., ma anche tutto il contesto mediorientale in cui il conflitto israelo-palestinese è via via sprofondato nell’irrilevanza, a fronte della supposta “minaccia iraniana”. E quindi l’importanza di Israele, Egitto e Turchia come “guardiani occidentali” dell’area, cui si lascia anche un bel po’ di libertà d’azione (vedi la repressione turca sui curdi) purché si tengano fermi gli interessi occidentali. E poi, adesso, c’è la Libia a preoccupare, lasciamo perdere quel conflitto che tutto sommato sta lì irrisolto da oltre 60 anni e al momento non è bene rimetterlo in primo piano. Qualche notizia a proposito del mitico Tony Blair inviato ONU per il Medio Oriente?
E ancora: la sinistra israeliana è quasi sparita, 10 seggi su 120, segno di un’afasia ormai apparentemente definitiva. Eppure, stanno lì le ragioni fondative dello Stato israeliano come stato democratico degli ebrei. Ecco, forse ci stiamo avvicinando al cuore del problema…pochi mesi prima delle elezioni (anticipate per combattere le accuse di corruzione nei confronti di Netanyahu e consorte) la Knesset ha votato una “legge fondamentale” equiparabile alla costituzione, che in Israele non c’è, che distingueva in senso costituzionale gli abitanti ebrei dai non ebrei, e assegnava all’ebraismo una missione espansiva. Due abomini culturali, giuridici, che però non hanno sollevato un sommovimento pari alla loro gravità né nell’opinione pubblica democratica mondiale, né – a quanto mi risulta – nella diaspora. Perché qui è esploso, e credo che il risultato delle elezioni sia una conferma, il nesso costitutivo della storia del sionismo democratico e socialista: essere cioè un movimento socialista di liberazione degli ebrei. Di questa contraddizione oggettiva – è un po’ difficile avere al contempo una missione sociale ed essere un movimento di liberazione nazionale – è lastricata la storia di quel movimento, dalla stessa discussione se il destino degli ebrei liberati dovesse essere necessariamente la Palestina ottomana o non piuttosto l’Uganda o l’Argentina, per continuare con il dibattito se negli insediamenti appena acquistati dai possidenti arabi e gestiti in maniera collettiva dovesse essere ammessa manodopera locale (cioè araba) oppure no, fino alla stessa Dichiarazione d’indipendenza che definisce Israele, appunto, Stato democratico fondato sull’eguaglianza dei suoi cittadini. Che poi questo assioma si sia realizzato in diritti diseguali è vero, ma mai fino al 2018 sia era giunti a costituzionalizzare un regime giuridico differenziato tra abitanti uno stesso Paese. Si chiama, e non avete idea quanto mi costi scriverlo, apartheid.
Ecco, temo, e vorrei davvero sbagliarmi, le elezioni hanno visto prevalere il consenso a questo stato di cose. Se è così, ad un ebreo della diaspora laico e di sinistra si pongono domande radicali: è ancora valido il legame sentimentale con quel Paese, che si amava nonostante tutto perché si sperava che si sarebbe potuto “redimere” dall’occupazione dei territori occupati? Nonostante l’assassinio di Rabin per mano di un fascista ebreo la soluzione dei due stati era sembrata ancora una via possibile, certo sempre meno praticabile mano mano che gli insediamenti si estendevano in Cisgiordania e che si procedeva nella costruzione del tragico muro di separazione, che inglobava terre palestinesi. Ma una volta che si è cancellato il fondamento egualitario dello Stato d’Israele, e si è sancita la primazia costituzionale degli ebrei sugli altri, il passo è compiuto e aldilà degli affetti che ciascun ebreo diasporico può avere, e mantenere, con propri cari in terra d’Israele il legame è definitivamente rotto. Del resto, la stessa ipotesi dei due stati non potrà che essere definitivamente cancellata se Netanyahu darà corso, come promesso in campagna elettorale, ad annessioni di parti di Cisgiordania. E ancora: il calo significativo della partecipazione al voto di cittadini arabi israeliani è chiaro sintomo, aldilà delle vicende interne alle formazioni politiche, di un disincanto nei confronti dello Stato che potrà sfociare in forme ben peggiori di rifiuto, ma che intanto riflette l’esito di un progressivo non sentirsi più parte di una comunità, per quanto diseguale. Sono tutti segnali di un’involuzione drammatica che sembra definitiva.
Un’ultima cosa, forse la più straziante: l’uso spregiudicato della Shoah e della categoria dell’antisemitismo. Se si è giustamente affermata la natura ineguagliabile dello sterminio nazista, in quanto mai in nessun luogo della storia umana si è organizzata scientificamente e perseguita la scomparsa di una popolazione, e si è levato il grido “mai più” dopo Auschwitz. Ma allora si debbono necessariamente trarre due conseguenze, che invece sono state sempre più spesso tradite, specie da parte della destra israeliana e mondiale: l’uso della Shoah nel dibattito pubblico quotidiano (ricordiamoci i manifesti di Rabin con i baffetti di Hitler) e l’accusa di antisemitismo per chiunque critichi le scelte israeliane. Si è così banalizzata l’enormità della Shoah, si è reso lo sterminio strumento di battaglia politica, e si è così permesso a gente insopportabile (Bolsonaro, Orban o Salvini, per citare gli ultimi) di “scaricarsi la coscienza” con una visita allo Yad Vashem, ma poi di praticare politiche razziste a casa propria mentre si stringevano accordi con Netanyahu. So bene che la politica estera non può essere legata (solo) a presupposti “morali” (la storia dell’URSS e dei partiti comunisti è lì a ricordarcelo), ma un conto è muoversi secondo i propri (supposti) interessi nazionali nello scacchiere internazionale, altro è invece perseguire scientemente contatti con regimi o forze politiche razzisti. E allora il “mai più!” diventa, tragicamente, “mai più a noi”, rompendo qui l’altro nesso che l’ebraismo ha sempre avuto con la lotta degli oppressi e per l’eguaglianza. E se ne va così un altro legame tra me e quel Paese.
Claudio Treves
Dirigente nazionale CGIL. Figlio di Paolo la “voce” di Radio Londra nonché membro della Costituente. Nipote di Claudio Treves fondatore con Turati del PSI. Ebreo.

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