Christoph BakerRacconti Brevi

Di barche, battelli e bastimenti

Seduto sotto la pergola di una piccola taverna greca nel porto di Agia Kyriaki, vedo avvicinarsi alla banchina un peschereccio bianco e celeste. Due uomini si alzano dalle loro sedie al bar di fronte. Prendono le funi in mano per ormeggiare la barca. Il pescatore scende e li raggiunge al caffè. Dopo tre o quattro tsipouro (l’ouzo della Tessaglia), se ne torna al peschereccio, libera le funi e riparte verso l’isola di fronte solcando le acque azzurre del golfo di Volos…

In questo quadro pacifico, sento tutta la bellezza di una forma di trasporto e di viaggio che accompagna l’uomo dalla notte dei tempo. Penso ai Maori che sono giunti in Nuova Zelanda mille anni fa su delle semplici piroghe. Penso a Thor Heyerdhal e il Kon Tiki, una zattera che somiglierebbe a una imbarcazione che popoli indigeni dal Peru avrebbero costruito all’epoca per raggiungere le isole dell’Oceania. Penso ai mie avi, capitani di lungo corso sula rotta da Boston alla Cina, che affrontavano gli oceani della terra sui loro schooners, le più famose e performanti golette dell’Ottocento.

Dal fondo della memoria ritornano i ricordi delle traversate sui grandi transatlantici. Si chiamavano Raffaello, Michelangelo, Queen Mary, Queen Elizabeth, United States, Constitution, Le France… Quando ci volevano sei giorni per raggiungere New York salpando da Le Havre. Sei giorni in alto mare lontani da tutte le terre con i venti e le onde come fedeli compagni di viaggio, e a volte maestosi gabbiani che seguivano la nave fino all’altra riva dell’Atlantico.

Vedo passare un traghetto che da Volos porta alle Isole Sporadi, a Skiathos, Skopelos e Alonissos. Quanti traghetti presi in una vita di viaggi… Dai piccoli battelli che attraversavano il lago di Costanza o il Rodano in Camargue, agli imponenti “grandi navi” che da Genova portano a Palermo o da Civitavecchia a Barcellona o da Sète a Tangeri o dal Pireo a Creta. E quelli presi per una vita da Brindisi a Igoumenitsa. Ed erano viaggi spensierati da vacanzieri, più allegra l’andata, più nostalgico il ritorno, al termine di giorni meravigliosi di ozio e convivialità nella terra di Ulisse e di Zorba. Dopo un ultimo calice di vino, mi alzo e cammino lentamente verso il cantiere navale di Agia Kyriaki.

Siamo in inverno, la stagione della manutenzione dei pescherecci e dei battelli per i turisti. Fuori dall’acqua, le imbarcazioni sembrano goffi animali dalla pancia troppo grossa, ricordano l’albatro di Baudelaire. Uomini sapienti curano ogni dettaglio per garantire un’altra stagione di pesca e di escursioni senza timori. Ammiro le gesta antiche di questi artigiani marini. Non c’è precipitazione né approssimazione nel loro lavoro. Eredi di una cultura millenaria, qui come in tutti i porti del mondo. Dopo Pasqua, queste navi torneranno nel mare, con una cerimonia semplice e sempre con un applauso liberatorio quando il bastimento si assesta e galleggia sicuro nelle acque del porto.

Poi vengono in mente le chiatte che per decenni hanno solcato i canali della Francia. Un mondo a sé. Da bambino, li osservavo con invidia. Che bella sembrava la vita a bordo di una “ péniche”. I bambini non andavano a scuola per forza. Erano i genitori che li aiutavano con i libri di testo. Bianche lenzuola svolazzavano sul ponte, due biciclette legate alle ringhiere della chiatta. Viaggiavano lente sui canali, trasportavano sabbia, ghiaia, grano, sale, molassa, a volte vino nelle grandi botti. Oggi, la maggioranza di queste chiatte sono diventate appartamenti galleggianti per privilegiati sui fiumi delle grandi città, dalla Senna al Rodano, dal Reno alla Garonna alla Loira. E viene da pensare che siamo veramente lontani da una riconversione ecologica, quando un modo di trasporto così più sano che i camion, non viene per niente sostenuto né preso in considerazione. Nell’elenco dei battelli, non posso mancare le barche a vela da diporto. Quelle del tempo libero e del piacere. Piccole barche con la deriva, velieri più seri per le traversate mediterranee o atlantiche. Le sensazioni uniche di stare nel vento con le vele spiegate solcando le acque del lago o del mare. Il silenzio particolare dell’andare a vela. E poi a volte la gioia di una scuola di delfini che fanno a gara con la prua della barca, come quella volta da Anzio a Ponza, e poi in un attimo, non ci sono più. Sono tornati ai loro fondali…

Vedere la costa dal ponte di una barca dà un altro punto di vista sulla terra degli uomini. Ci si dispera per le colate di cemento che hanno deturpato tanti paesaggi, ma ci si rallegra per i luoghi rimasti intatti, dove scure foreste bagnano i piedi lungo coste rocciose e selvatiche. Al largo della terra degli uomini, si capisce la nostra piccolezza, la nostra arroganza di predatori, il nostro appetito insaziabile. A volte, uno non vuole più tornare al porto, vuole solo ripartire verso l’orizzonte, lontano dal mondo frenetico e vorace che tanto male fa alla natura. Ma non si riesce a uscire dall’orrore umano, neanche sul mare. Quanti gommoni, quanti pescherecci marci stracolmi di migranti disperati sono annegati nel Canale di Sicilia? Le immagini di queste barche ci perseguitano nella nostra quietudine di bravi cristiani. Quanti uomini, donne e bambini si sono appesi ai loro bordi come ultima speranza? Quanti hanno visto la terra promessa a poche miglia e non l’hanno mai raggiunta? E se poi ci spostiamo a Lesbo, la terra promessa è un inferno. Eppure, quante imbarcazioni sono anche la salvezza di migliaia e migliaia di immigrati. Quante donne e uomini di buona volontà stanno pattugliando il Mediterraneo per mettere in sicurezza questi uomini alla deriva! Le loro navi sono eroi di acciaio in un mondo di cinismo e sfruttamento. A due passi dalla tragedia, traggono a bordo i disperati delle zattere. E poi, i capitani di questi bastimenti lottano con i governi che gli rifiutano l’attracco in porti sicuri. Questi governi che gli obbligano a fare ritorno all’orrore della costa libica e ai campi di concentramento, che i disperati avevano pensato di seppellire per sempre nella loro memoria torturata. Non passa giornata che non ci sia un salvataggio nel Mediterraneo e ogni volta assistiamo alla stessa vergogna. Perché questi immigrati sarebbero una minaccia per la nostra tranquillità? Per la nostra sicurezza? Ma, per favore…!

Poi ci sono le navi da guerra. Da sempre. Dai tempi dei Fenici, l’uomo ha voluto trasformare pacifici bastimenti in feroci armi bellici. Sempre alla punta del progresso, rappresentano la perversione umana che da sempre privilegia la violenza su ogni altro metodo di confronto o negoziazione. Tuttora i potenti del mondo rafforzano le loro flotte di navi da guerra; e anche se non se ne parla quasi mai, sono ogni giorno là per mantenere vive le tensioni politiche, per provocare qualche “incidente diplomatico”, per sperimentare nuovi missili droni e compagnia bella. Magari con testate nucleari. E non parliamo delle cose utili che si potrebbero fare con i soldi spesi e sprecati per acquistare e mantenere queste flotte della morte.

Il quadro fosco delle navi di alto mare si riempie di navi da carico, porta container, petroliere, bananiere e tante altre. Rappresentano un’altra guerra: il commercio internazionale.

E qui molti noi siamo coinvolti personalmente in questo traffico inquinante e insostenibile. Facciamo un esempio: la banana! Se ci fosse in atto una valutazione del prezzo delle merci che includerebbero il costo ecologico di un prodotto globalizzato, la banana costerebbe decine di volte in più. E così tanti altri prodotti che viaggiano su e giù per i mari del pianeta, per soddisfare i nostri consumi superflui e inquinanti.

Come sono brutte le famose “grandi navi da crociera”, orrendi hotel galleggianti dove vengono compressi migliaia di viaggiatori in una idea della vacanza e del viaggio squallida e bassamente commerciale. A parte il fatto che debbano risalire il Canal Grande di Venezia come orchi extraterrestri e minacciosi, la vita a bordo di questi grattacieli marini è un’indigestione permanente di cibo, alcool e giochi video. Raramente, ci si interessa ai luoghi che vengono raggiunti tappa dopo tappa. L’importante è abbuffarsi e ubriacarsi…

Allora, ritorno al piccolo peschereccio di Agia Kyriaky. Ricordo Donnalucata vicino a Ragusa o Carro accanto a Marsiglia, dove ogni mattina i pescatori tornano nel porto con la pesca della notte e puoi scegliere fra triglie e spigole, calamari e polpi, gamberi e moscardini, rombi e sogliole. A volte anche un’aragosta o un granchio. E sai che il gusto che avranno questi pesci freschissimi non conosce paragone. Il sole scende lentamente sull’isola di Eubea di fronte. Non vi è rumore in questo tardo pomeriggio nell’inverno della Tessaglia. Alcune anatre nuotano davanti alla taverna. I gatti randagi stanno sotto il tavolo aspettando ancora qualche pezzo di pesce, una patatina fritta. Un gabbiano passa sopra la testa col suo grido straziante. L’oste ha portato una ultima caraffa di bianco. Il tempo si è fermato. La pace è qui.

E la tentazione, di fronte a tutte le brutture di un mondo alla deriva, è di posare qui le valigie, trovarsi un piccolo lavoro magari aiutando i pescatori la mattina a svuotare le reti, oppure servendo in una delle taverne, finalmente staccato dalla vita assurda che ci tocca fare nel mondo della competizione, della sopraffazione, dell’alienazione.

Il sole sparisce dietro il Monte Parnaso, e penso al finale del film “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores.

Andate a rivederlo…

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