ArticoliTeologia della Liberazione

Lettera ai vescovi brasiliani

Vescovi emeriti che hanno operato nella realtà brasiliana, riflettono sul nuovo pontificato, e rilanciano il documento delle catacombe di S. Domitilla sottoscritto da oltre 500 vescovi alla fine del Concilio Vaticano II

(Fonte: Rete Mondiale delle Comunità Ecclesiastiche)

Don José Maria Pires, arcivescovo emerito di Paraiba. Don Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás. Don Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia.

 

Cari fratelli dell’episcopato

 

Siamo tre vescovi emeriti che, d’accordo con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, nonostante non siamo più pastori di una Chiesa locale, partecipiamo sempre al Collegio episcopale, e, insieme al Papa, ci sentiamo responsabili della comunione universale della Chiesa Cattolica. Ci ha rallegrato molto l’elezione di Papa Francesco nella pastorizia della Chiesa, per i suoi messaggi di rinnovamento e cambiamento, con i suoi costanti richiami ad una maggiore semplicità evangelica e maggior zelo di amore pastorale di tutta la Chiesa. Ci ha emozionato anche la sua recente visita in Brasile, in particolare le sue parole ai giovani e ai vescovi. Ci ha perfino riportato alla memoria lo storico Patto delle Catacombe. Ci rendiamo conto, noi vescovi, di ciò che significa, dal punto di vista della teologia, questo nuovo orizzonte ecclesiastico? In Brasile, in un’intervista, il Papa ha ricordato la famosa massima medievale: Ecclesia semper renovanda (la Chiesa si rinnova sempre). Pensando alla nostra responsabilità come vescovi della Chiesa Cattolica, ci permettiamo questo gesto di confidenza di scriverle queste riflessioni, con una richiesta fraterna di sviluppare un maggiore dialogo sull’argomento.

 

La Teologia del Vaticano II sul ministero episcopale

 

Il Decreto Christus Dominus dedica il 2° capitolo alla relazione tra vescovo e Chiesa Particolare. Si presenta ogni Diocesi come “porzione del Popolo di Dio” (non è più solo un territorio) e afferma che, “in ogni Chiesa locale c’è e opera veramente la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (CD 11), perciò tutta la Chiesa locale non è solo un pezzo di Chiesa o una filiale del Vaticano, ma una vera Chiesa di Cristo, così come la designa il Nuovo Testamento (LG 22). “Ogni Chiesa locale è congregata dallo Spirito Santo, per mezzo del Vangelo, ha la sua consistenza propria nel servizio della carità, questo è, nella missione di trasformare il mondo e testimoniare il Regno degli Dei. Questa missione si esprime nella Eucarestia e nei sacramenti. Ciò si vive nella comunione con il suo pastore, il vescovo”. Questa teologia pone il vescovo non sopra o fuori dalla sua Chiesa, ma come cristiano inserito nel gregge e con un ministero di servizio ai suoi fratelli. A partire da questo annuncio, ogni vescovo, locale o emerito, così come gli ausiliari e coloro che lavorano in funzioni pastorali senza diocesi, tutti, in quanto portatori del dono ricevuto da Dio nell’ordinazione, sono membri del Collegio Episcopale e responsabili del cattolicesimo della Chiesa.

 

La sinodalità necessaria nel XXI secolo

 

L’organizzazione del papato come struttura monarchica centralizzata fu istituita a partire dal pontificato di Gregorio VII, nel 1078. Nel 1° millennio del Cristianesimo, il primate del vescovo di Roma era organizzato di forma più collegiale e la Chiesa tutta era più sinodale. Il Concilio Vaticano II orientò la Chiesa verso la comprensione dell’episcopato come un ministero collegiale. Questa innovazione incontrò, durante il Concilio, l’opposizione di una minoranza discorde. La presa di posizione, in realtà, non fu pienamente portata a termine. Inoltre, il Codice di Diritto Canonico del 1983 e i documenti emanati dal Vaticano, a partire da allora, non hanno dato la priorità alla collegialità, ma restrinsero il suo campo e crearono barriere al suo esercizio. Ciò ha favorito la centralizzazione e il crescente potere della Curia romana, a scapito delle Conferenze nazionali e continentali e dello stesso Sinodo dei vescovi, di carattere solamente consultivo e non deliberante, essendo queste organizzazioni detentrici, insieme al Vescovo di Roma, del supremo e pieno potere in relazione alla Chiesa intera. Ora, il papa Francesco sembra voglia restituire alle strutture della Chiesa Cattolica e ad ognuna delle nostre diocesi un’organizzazione più sinodale e di comunione collegiale. Verso questo orientamento, ha costituito una commissione di cardinali di tutti i continenti per studiare una possibile riforma della Curia Romana. Tuttavia, per fare passi concreti ed efficienti in questo cammino – che sta già succedendo – il Papa ha bisogno della nostra partecipazione attiva e cosciente. Dobbiamo fare ciò come forma di comprensione della stessa funzione di vescovi, non come meri consiglieri e ausiliari del Papa, che lo aiutino quando lo chieda o lo desideri, ma come pastori, incaricati col Papa di vegliare sulla comunione universale e la diligenza di tutte le Chiese.

 

Il cinquantennale del Concilio

 

In questo momento storico, che coincide anche con il cinquantennale del Concilio Vaticano II, il primo contributo che possiamo dare alla Chiesa è assumere la nostra missione di pastori che esercitino il sacerdozio del Nuovo Testamento, non come sacerdoti della legge antica, ma come profeti. Questo ci obbliga a collaborare effettivamente con il vescovo di Roma, esprimendo con più libertà e autonomia la nostra opinione sugli argomenti che richiedano una revisione pastorale e teologica. Se i vescovi di tutto il mondo esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo e dessero la loro opinione più liberamente su diversi argomenti, sicuramente, si romperebbero certi tabù, e la Chiesa potrebbe riprendere il dialogo con l’umanità, che il Papa Giovanni XXIII aveva iniziato e che Papa Francesco sta segnalando. L’occasione, perciò, è quella di assumere il Concilio Vaticano II attualizzato, superare una volta per tutte la tentazione della Cristianità, vivere dentro una Chiesa plurale e povera, di aiuto per i poveri, una teologia di partecipazione, di liberazione, di diaconia, di profezia, di martirio…Una Chiesa esplicitamente ecumenica, di fede e politica, di integrazione della Nostra America, rivendicando gli uguali diritti per le donne, superando le chiusure provenienti da una teologia sbagliata. Concluso il Concilio, alcuni vescovi – molti provenienti dal Brasile – celebrarono il patto delle Catacombe di Santa Domitilla. Approssimativamente 500 vescovi li seguirono in questo compromesso di radicale e profonda conversione personale. Fu così che si inaugurò la recezione valente e profetica del Concilio. In questi giorni, molte persone, di diverse parti del mondo, stanno pensando a un nuovo Patto delle Catacombe. Per questo, desiderando contribuire alla riflessione ecclesiastica di essi, inviamo annesso il testo originale del Primo Patto. Il clericalismo denunciato dal Papa Francesco sta sequestrando la centralità del Popolo di Dio nella comprensione di una Chiesa i cui membri, nel battesimo, sono elevati alla dignità di “sacerdoti, profeti e re”. Lo stesso clericalismo va escludendo il protagonismo ecclesiastico dei laici e delle laiche, facendo sì che il sacramento dell’ordine si sovrapponga al sacramento del battesimo e alla radicale egualità in Cristo di tutti i battezzati e le battezzate. Inoltre, in un contesto mondiale nel quale la maggioranza dei cattolici si trova a sud (America Latina e Africa) è importante dare altri volti alla Chiesa rispetto a quello attuale, espresso nella cultura occidentale. Nei nostri paesi, è buona cosa avere la libertà di “deoccidentalizzare” il linguaggio della fede e della liturgia latina, non per creare una Chiesa differente, ma per arricchire la cattolicità ecclesiastica. E’ in gioco il nostro dialogo con il mondo, alla fine. E’ in questione qual è l’immagine di Dio che diamo nel mondo e della quale diamo testimonianza per il nostro modo di essere, per il linguaggio delle nostre celebrazioni e par la forma che prende la nostra pastorale. Questo punto è quello che ci deve preoccupare di più ed esigere la nostra attenzione. Nella Bibbia, per il popolo di Israele, “tornare al primo amore”, significava riprendere la mistica e la spiritualità dell’Esodo. Per le nostre chiese dell’America Latina, “tornare al primo amore” è riprendere la mistica del Regno di Dio nel cammino insieme ai poveri e al servizio della loro liberazione. Nelle nostre diocesi, le pastorali sociali non possono essere mere appendici dell’organizzazione ecclesiastica o espressioni minori della nostra diligenza pastorale. Al contrario, è ciò che ci costituisce come Chiesa, assemblea riunita dallo Spirito per dare testimonianza che il Regno sta venendo e che, di fatto, preghiamo e desideriamo: venga il tuo Regno! Questa ora è, senza dubbio, soprattutto per noi, i vescovi, con urgenza, l’ora dell’azione. Il Papa Francesco, dirigendosi ai giovani nella Giornata Mondiale e nel dargli appoggio nelle loro mobilitazioni, così si è espresso: “voglio che la Chiesa scenda in strada”. Questo è un eco dell’entusiastica parola dell’apostolo Paolo ai Romani: “è ora di svegliarci, è ora di vestire le armi della luce (13, 11). Sia questa la nostra mistica e nostro profondo amore. Abbracci, con fraterna amicizia.

 

MANIFESTO DELLE CATACOMBE

 

NOI, VESCOVI riuniti nel Concilio Vaticano II, coscienti delle deficienze della nostra vita di povertà come comanda il Vangelo; invitati gli uni dagli altri in una iniziativa nella quale ognuno di noi ha evitato la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli dell’episcopato; contando soprattutto, con la grazia e la forza di nostro Signore Gesù Cristo, con la preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; mettendoli con il pensiero e con la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti i sacerdoti e i fedeli delle nostre diocesi, con umiltà e con coscienza della nostra debolezza, ma comunque con tutta la determinazione e tutta la forza che Dio ci vuole dare come sua grazia, ci impegneremo a fare ciò che segue:

 

1 – Ci guadagneremo da vivere nel modo ordinario della nostra popolazione in ciò che riguarda la casa, il cibo, mezzi di locomozione, e a tutto ciò che ne consegue. (Mt 5, 3, 6, 33s; 8 – 20).

 

2 – Rinunceremo per sempre alla ricchezza, sia reale che apparente, specialmente nel vestire (vestiti costosi, colori sgargianti) e simboli di metallo prezioso a favore di altri segni più evangelici.

 

3 – Non possederemo beni mobili o immobili, non avremo conti in banca a nome proprio. Se fosse necessario possedere qualcosa, metteremo tutto a nome della diocesi, o delle opere sociali o di carità.

 

4 – Per quanto sia possibile affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e coscienti del loro ruolo apostolico, per essere meno amministratori e più pastori e apostoli.

 

5 – Rinunceremo a farci chiamare con nomi e titoli che esprimano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore) sia verbalmente che per iscritto.

 

6 – Nel nostro comportamento e relazioni sociali eviteremo tutto ciò che possa sembrare concessione di privilegi, supremazia, o anche preferenza verso i ricchi e i possidenti (per esempio in banchetti offerti o accettati, in servizi religiosi).

 

7 – Allo stesso modo eviteremo di propiziare o adulare la vanità di chicchessia, ricompensare o sollecitare aiuto, o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro aiuti come una normale partecipazione al culto, nell’apostolato e nell’azione sociale.

 

8 – Daremo tutto ciò che sarà necessario del nostro tempo, riflessione, cuore o mezzi al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi lavorativi ed economicamente più sfavoriti. Appoggeremo i laici, i religiosi, diaconi o sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e i lavoratori condividendo la loro vita e il lavoro.

9 – Cercheremo di trasformare le opere di beneficienza in opere sociali basate sulla carità e sulla giustizia

 

10 – Lavoreremo perché i responsabili politici facciano leggi, strutture e istituzioni sociali che sono necessarie per la giustizia, l’eguaglianza, e lo sviluppo armonico e totale dell’uomo e di tutti gli uomini, e , così, per la venuta di un ordine sociale nuovo, degno degli uomini e dei figli di Dio.

 

11 – Poiché la funzione di vescovo incontra la sua piena realizzazione evangelica nel servizio alle persone in situazione di miseria fisica, culturale o morale, ci impegneremo a:

 

partecipare, a seconda delle nostre possibilità, nei progetti urgenti degli episcopati delle nazioni povere;

 

chiedere in maniera unanime agli organismi internazionali l’attuazione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino nazioni povere in un mondo sempre più ricco, affinché permettano che la maggioranza povera esca dalla sua miseria.

 

12 – Ci impegneremo a condividere la nostra vita, in carità pastorale, con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio.

 

In questo modo:

 

Ci sforzeremo per “rivedere la nostra vita” con essi;

 

Cercheremo collaboratori per poter essere più animatori secondo lo Spirito che comandanti nel mondo;

 

Proveremo ad essere il più umanamente possibile presenti, e ad accogliere;

 

Ci mostreremo aperti a tutti, qualunque sia la religione.

 

13 – Quando torneremo alle nostre diocesi porteremo a conoscenza queste risoluzioni ai nostri fedeli, chiedendogli che ci aiutino con la loro comprensione, collaborazione e le loro preghiere.

 

Che Dio ci aiuti ad essere fedeli al Vangelo di Gesù.

 

(Catacomba di Domitilla, Roma, 16 novembre 1965)

 

Fonte: Rete Mondiale delle Comunità Ecclesiastiche

Lettera ai vescovi brasiliani

Don José Maria Pires, arcivescovo emerito di Paraiba. Don Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás. Don Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia.

Cari fratelli dell’episcopato

Siamo tre vescovi emeriti che, d’accordo con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, nonostante non siamo più pastori di una Chiesa locale, partecipiamo sempre al Collegio episcopale, e, insieme al Papa, ci sentiamo responsabili della comunione universale della Chiesa Cattolica. Ci ha rallegrato molto l’elezione di Papa Francesco nella pastorizia della Chiesa, per i suoi messaggi di rinnovamento e cambiamento, con i suoi costanti richiami ad una maggiore semplicità evangelica e maggior zelo di amore pastorale di tutta la Chiesa. Ci ha emozionato anche la sua recente visita in Brasile, in particolare le sue parole ai giovani e ai vescovi. Ci ha perfino riportato alla memoria lo storico Patto delle Catacombe. Ci rendiamo conto, noi vescovi, di ciò che significa, dal punto di vista della teologia, questo nuovo orizzonte ecclesiastico? In Brasile, in un’intervista, il Papa ha ricordato la famosa massima medievale: Ecclesia semper renovanda (la Chiesa si rinnova sempre). Pensando alla nostra responsabilità come vescovi della Chiesa Cattolica, ci permettiamo questo gesto di confidenza di scriverle queste riflessioni, con una richiesta fraterna di sviluppare un maggiore dialogo sull’argomento.

La Teologia del Vaticano II sul ministero episcopale

Il Decreto Christus Dominus dedica il 2° capitolo alla relazione tra vescovo e Chiesa Particolare. Si presenta ogni Diocesi come “porzione del Popolo di Dio” (non è più solo un territorio) e afferma che, “in ogni Chiesa locale c’è e opera veramente la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (CD 11), perciò tutta la Chiesa locale non è solo un pezzo di Chiesa o una filiale del Vaticano, ma una vera Chiesa di Cristo, così come la designa il Nuovo Testamento (LG 22). “Ogni Chiesa locale è congregata dallo Spirito Santo, per mezzo del Vangelo, ha la sua consistenza propria nel servizio della carità, questo è, nella missione di trasformare il mondo e testimoniare il Regno degli Dei. Questa missione si esprime nella Eucarestia e nei sacramenti. Ciò si vive nella comunione con il suo pastore, il vescovo”. Questa teologia pone il vescovo non sopra o fuori dalla sua Chiesa, ma come cristiano inserito nel gregge e con un ministero di servizio ai suoi fratelli. A partire da questo annuncio, ogni vescovo, locale o emerito, così come gli ausiliari e coloro che lavorano in funzioni pastorali senza diocesi, tutti, in quanto portatori del dono ricevuto da Dio nell’ordinazione, sono membri del Collegio Episcopale e responsabili del cattolicesimo della Chiesa.

La sinodalità necessaria nel XXI secolo

L’organizzazione del papato come struttura monarchica centralizzata fu istituita a partire dal pontificato di Gregorio VII, nel 1078. Nel 1° millennio del Cristianesimo, il primate del vescovo di Roma era organizzato di forma più collegiale e la Chiesa tutta era più sinodale. Il Concilio Vaticano II orientò la Chiesa verso la comprensione dell’episcopato come un ministero collegiale. Questa innovazione incontrò, durante il Concilio, l’opposizione di una minoranza discorde. La presa di posizione, in realtà, non fu pienamente portata a termine. Inoltre, il Codice di Diritto Canonico del 1983 e i documenti emanati dal Vaticano, a partire da allora, non hanno dato la priorità alla collegialità, ma restrinsero il suo campo e crearono barriere al suo esercizio. Ciò ha favorito la centralizzazione e il crescente potere della Curia romana, a scapito delle Conferenze nazionali e continentali e dello stesso Sinodo dei vescovi, di carattere solamente consultivo e non deliberante, essendo queste organizzazioni detentrici, insieme al Vescovo di Roma, del supremo e pieno potere in relazione alla Chiesa intera. Ora, il papa Francesco sembra voglia restituire alle strutture della Chiesa Cattolica e ad ognuna delle nostre diocesi un’organizzazione più sinodale e di comunione collegiale. Verso questo orientamento, ha costituito una commissione di cardinali di tutti i continenti per studiare una possibile riforma della Curia Romana. Tuttavia, per fare passi concreti ed efficienti in questo cammino – che sta già succedendo – il Papa ha bisogno della nostra partecipazione attiva e cosciente. Dobbiamo fare ciò come forma di comprensione della stessa funzione di vescovi, non come meri consiglieri e ausiliari del Papa, che lo aiutino quando lo chieda o lo desideri, ma come pastori, incaricati col Papa di vegliare sulla comunione universale e la diligenza di tutte le Chiese.

Il cinquantennale del Concilio

In questo momento storico, che coincide anche con il cinquantennale del Concilio Vaticano II, il primo contributo che possiamo dare alla Chiesa è assumere la nostra missione di pastori che esercitino il sacerdozio del Nuovo Testamento, non come sacerdoti della legge antica, ma come profeti. Questo ci obbliga a collaborare effettivamente con il vescovo di Roma, esprimendo con più libertà e autonomia la nostra opinione sugli argomenti che richiedano una revisione pastorale e teologica. Se i vescovi di tutto il mondo esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo e dessero la loro opinione più liberamente su diversi argomenti, sicuramente, si romperebbero certi tabù, e la Chiesa potrebbe riprendere il dialogo con l’umanità, che il Papa Giovanni XXIII aveva iniziato e che Papa Francesco sta segnalando. L’occasione, perciò, è quella di assumere il Concilio Vaticano II attualizzato, superare una volta per tutte la tentazione della Cristianità, vivere dentro una Chiesa plurale e povera, di aiuto per i poveri, una teologia di partecipazione, di liberazione, di diaconia, di profezia, di martirio…Una Chiesa esplicitamente ecumenica, di fede e politica, di integrazione della Nostra America, rivendicando gli uguali diritti per le donne, superando le chiusure provenienti da una teologia sbagliata. Concluso il Concilio, alcuni vescovi – molti provenienti dal Brasile – celebrarono il patto delle Catacombe di Santa Domitilla. Approssimativamente 500 vescovi li seguirono in questo compromesso di radicale e profonda conversione personale. Fu così che si inaugurò la recezione valente e profetica del Concilio. In questi giorni, molte persone, di diverse parti del mondo, stanno pensando a un nuovo Patto delle Catacombe. Per questo, desiderando contribuire alla riflessione ecclesiastica di essi, inviamo annesso il testo originale del Primo Patto. Il clericalismo denunciato dal Papa Francesco sta sequestrando la centralità del Popolo di Dio nella comprensione di una Chiesa i cui membri, nel battesimo, sono elevati alla dignità di “sacerdoti, profeti e re”. Lo stesso clericalismo va escludendo il protagonismo ecclesiastico dei laici e delle laiche, facendo sì che il sacramento dell’ordine si sovrapponga al sacramento del battesimo e alla radicale egualità in Cristo di tutti i battezzati e le battezzate. Inoltre, in un contesto mondiale nel quale la maggioranza dei cattolici si trova a sud (America Latina e Africa) è importante dare altri volti alla Chiesa rispetto a quello attuale, espresso nella cultura occidentale. Nei nostri paesi, è buona cosa avere la libertà di “deoccidentalizzare” il linguaggio della fede e della liturgia latina, non per creare una Chiesa differente, ma per arricchire la cattolicità ecclesiastica. E’ in gioco il nostro dialogo con il mondo, alla fine. E’ in questione qual è l’immagine di Dio che diamo nel mondo e della quale diamo testimonianza per il nostro modo di essere, per il linguaggio delle nostre celebrazioni e par la forma che prende la nostra pastorale. Questo punto è quello che ci deve preoccupare di più ed esigere la nostra attenzione. Nella Bibbia, per il popolo di Israele, “tornare al primo amore”, significava riprendere la mistica e la spiritualità dell’Esodo. Per le nostre chiese dell’America Latina, “tornare al primo amore” è riprendere la mistica del Regno di Dio nel cammino insieme ai poveri e al servizio della loro liberazione. Nelle nostre diocesi, le pastorali sociali non possono essere mere appendici dell’organizzazione ecclesiastica o espressioni minori della nostra diligenza pastorale. Al contrario, è ciò che ci costituisce come Chiesa, assemblea riunita dallo Spirito per dare testimonianza che il Regno sta venendo e che, di fatto, preghiamo e desideriamo: venga il tuo Regno! Questa ora è, senza dubbio, soprattutto per noi, i vescovi, con urgenza, l’ora dell’azione. Il Papa Francesco, dirigendosi ai giovani nella Giornata Mondiale e nel dargli appoggio nelle loro mobilitazioni, così si è espresso: “voglio che la Chiesa scenda in strada”. Questo è un eco dell’entusiastica parola dell’apostolo Paolo ai Romani: “è ora di svegliarci, è ora di vestire le armi della luce (13, 11). Sia questa la nostra mistica e nostro profondo amore. Abbracci, con fraterna amicizia.

MANIFESTO DELLE CATACOMBE

NOI, VESCOVI riuniti nel Concilio Vaticano II, coscienti delle deficienze della nostra vita di povertà come comanda il Vangelo; invitati gli uni dagli altri in una iniziativa nella quale ognuno di noi ha evitato la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli dell’episcopato; contando soprattutto, con la grazia e la forza di nostro Signore Gesù Cristo, con la preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; mettendoli con il pensiero e con la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti i sacerdoti e i fedeli delle nostre diocesi, con umiltà e con coscienza della nostra debolezza, ma comunque con tutta la determinazione e tutta la forza che Dio ci vuole dare come sua grazia, ci impegneremo a fare ciò che segue:

1 – Ci guadagneremo da vivere nel modo ordinario della nostra popolazione in ciò che riguarda la casa, il cibo, mezzi di locomozione, e a tutto ciò che ne consegue. (Mt 5, 3, 6, 33s; 8 – 20).

2 – Rinunceremo per sempre alla ricchezza, sia reale che apparente, specialmente nel vestire (vestiti costosi, colori sgargianti) e simboli di metallo prezioso a favore di altri segni più evangelici.

3 – Non possederemo beni mobili o immobili, non avremo conti in banca a nome proprio. Se fosse necessario possedere qualcosa, metteremo tutto a nome della diocesi, o delle opere sociali o di carità.

4 – Per quanto sia possibile affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e coscienti del loro ruolo apostolico, per essere meno amministratori e più pastori e apostoli.

5 – Rinunceremo a farci chiamare con nomi e titoli che esprimano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore) sia verbalmente che per iscritto.

6 – Nel nostro comportamento e relazioni sociali eviteremo tutto ciò che possa sembrare concessione di privilegi, supremazia, o anche preferenza verso i ricchi e i possidenti (per esempio in banchetti offerti o accettati, in servizi religiosi).

7 – Allo stesso modo eviteremo di propiziare o adulare la vanità di chicchessia, ricompensare o sollecitare aiuto, o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro aiuti come una normale partecipazione al culto, nell’apostolato e nell’azione sociale.

8 – Daremo tutto ciò che sarà necessario del nostro tempo, riflessione, cuore o mezzi al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi lavorativi ed economicamente più sfavoriti. Appoggeremo i laici, i religiosi, diaconi o sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e i lavoratori condividendo la loro vita e il lavoro.

9 – Cercheremo di trasformare le opere di beneficienza in opere sociali basate sulla carità e sulla giustizia

10 – Lavoreremo perché i responsabili politici facciano leggi, strutture e istituzioni sociali che sono necessarie per la giustizia, l’eguaglianza, e lo sviluppo armonico e totale dell’uomo e di tutti gli uomini, e , così, per la venuta di un ordine sociale nuovo, degno degli uomini e dei figli di Dio.

11 – Poiché la funzione di vescovo incontra la sua piena realizzazione evangelica nel servizio alle persone in situazione di miseria fisica, culturale o morale, ci impegneremo a:

partecipare, a seconda delle nostre possibilità, nei progetti urgenti degli episcopati delle nazioni povere;

chiedere in maniera unanime agli organismi internazionali l’attuazione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino nazioni povere in un mondo sempre più ricco, affinché permettano che la maggioranza povera esca dalla sua miseria.

12 – Ci impegneremo a condividere la nostra vita, in carità pastorale, con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio.

In questo modo:

Ci sforzeremo per “rivedere la nostra vita” con essi;

Cercheremo collaboratori per poter essere più animatori secondo lo Spirito che comandanti nel mondo;

Proveremo ad essere il più umanamente possibile presenti, e ad accogliere;

Ci mostreremo aperti a tutti, qualunque sia la religione.

13 – Quando torneremo alle nostre diocesi porteremo a conoscenza queste risoluzioni ai nostri fedeli, chiedendogli che ci aiutino con la loro comprensione, collaborazione e le loro preghiere.

Che Dio ci aiuti ad essere fedeli al Vangelo di Gesù.

(Catacomba di Domitilla, Roma, 16 novembre 1965)

(Fonte: Rete Mondiale delle Comunità Ecclesiastiche)

(284)

Loading