Le Regole del Passaggio a Livello
Tutto in un giorno
“Già le sette. Sono più stanco di ieri sera…Su, è ora.” L’esortazione fatta a se’ stesso lo fece uscire fuori dalle coltri. Cinque minuti di respirazione controllata alla finestra, il saluto al sole (quando aveva poco tempo erano le manovre minime dello Yoga, ma giovavano comunque), e via in cucina per il caffè. I suoi tempi erano collaudati e rispettati da sempre. Mentre veniva su il caffè dalla moca, pur avendo ricevuto in dono una macchinetta infernale automatica che non era pratica secondo lui, troppa manutenzione, sistemava il letto sfatto. Sorbiva il caffè e andava in bagno. Aveva escogitato un sistema che gli permetteva di risparmiare qualche minuto, entrando nella doccia con il rasoio. Si radeva la barba a memoria, sotto l’acqua, facendo attenzione alle basette ed al labbro superiore. Riusciva anche nel contropelo senza lacerarsi il volto. Tanta era la pratica che le basette erano precisamente della stessa lunghezza. Un solo flacone di sapone profumato per quattro usi diversi: la testa, il corpo, la barba e le zone intime. Soddisfatto, si infilava nell’accappatoio e lavava tazzina e moca usate per colazione. La moca lo induceva sempre a pensare che qualunque fosse la sua dimensione, bisognava lavare le tre parti che la compongono. Questo concetto poteva benissimo stare nelle regole del passaggio a livello. Reciterebbe così: “Qualunque sia la lunghezza del treno, bisogna aspettare che tutti i vagoni scorrano davanti alle sbarre del passaggio a livello abbassate.” Le regole del passaggio a livello erano una sua invenzione, una applicazione delle conoscenze e dell’esperienza acquisita in anni di riflessioni ed osservazione della varia umanità. Nei suoi pensieri e nei suoi ragionamenti, qualunque particolare confacentesi alle regole, era ben accetto. Erano questi suoi pensieri le regole stesse, ed ogni volta ne spuntava una. Soddisfatto di queste indicazioni, andava avanti nella vita parametrando tutto in funzione delle regole. Una volta vestito, era il momento della telefonata. Non che ne facesse molte, ma questa era quella che dava slancio alla giornata. Per un senso di pudore e di rispetto per la persona da chiamare, prima doveva essere vestito e calzato come si deve. L’apparecchio automatico fece il numero. Dopo anni di chiamate ad Aba, ogni volta che si accingeva a telefonarle trepidava, ogni squillo era per lui un’emozione, come le prime volte. “Pronto? Credo di sapere chi sei.” “Sono il menestrello che canta per te i saluti della giornata! Un felice, sereno e soddisfacente buongiorno ti sia d’auspicio per le prossime ore!” “Dovresti piantarla con questi tuoi barocchismi verbali, Leo. Non sempre di primo mattino una persona accetta le tue frasi scherzose.” “Sai Aba, mi sembra come se il nostro incontro di ieri sera non sia mai terminato.” “Al solito Leo. La tua visione distorta della realtà ti fa partire per la tangente. Siamo stati soltanto fuori a cena. Non aggiungerci nulla. Sto bene in tua compagnia, ma non ci trovo niente di più.” “Ma posso chiederti come hai passato la notte? Hai dormito bene? Sono forse stato il soggetto di qualche tuo incubo?” “Tranquillizzati pure, Leo caro, non ho avuto incubi. E neanche ti ho sognato. Vederti da sveglia mi basta e avanza.” “Ma, insomma, non perdi occasione per ferirmi con le tue parole! Non era così! Non erano questi i patti! Così non vale!” Aba rideva di gusto nel telefono, senza ritegno. Era quasi giunta alle lacrime. Sapeva che le rimostranze di Leo erano forzature di una ribellione non vera, fatta per salvare la faccia. Il loro rapporto era sempre stato così, amichevole e liberatorio. Aba aveva in gran considerazione quell’uomo timido, sensibile, altruista e genialoide. Leo da parte sua sentiva un trasporto per quella donna audace, intelligente, generosa e dalla profonda personalità, che lo imbarazzava. Lei non gli dimostrava il suo affetto più di quanto poteva e voleva concedergli. “Aba, buon lavoro. Ti chiamo durante la pausa per il pranzo. Fai la brava e stammi bene.” “Grazie, Leo. Aspetto la tua chiamata. E ricordati che sono sempre brava!” Leo aveva programmato per quel giorno una lunga passeggiata fra le zone monumentali di Roma. Con la sotterranea, da Cinecittà, saltava tutto il traffico stradale ed in breve era in centro, esonerato dalla ricerca di un parcheggio o dalla percorrenza obbligatoria di strade non pertinenti il luogo da raggiungere. Libero, insomma, padrone della città di cui poteva disporre a piacimento. Scese nella sotterranea e si trovò immerso nel gesticolante silenzio di cui si era dimenticato. Un decreto governativo, varato da poco tempo, imponeva all’aperto ed in tutti i luoghi pubblici il silenzio più assoluto. Si poteva comunicare soltanto con l’alfabeto dei gesti, quello che usano i sordi, per capirci. Ciò avrebbe evitato così rumori gratuiti, molesti, confusione, in modo che lo scorrere delle attività cittadine sarebbe stato più agevole. Le autorità avevano predisposto dei tutoriali da seguire per televisione o attraverso le reti telematiche e telefoniche, che permettessero a tutti l’apprendimento del LIS (Linguaggio Italiano dei Segni). Leo notò che i suoi simili, chi più, chi meno, riuscivano a farsi capire. Chi non sapeva ancora bene qualche segno, ricorreva alla lettura delle labbra che in silenzio mimavano le parole, alla scrittura di bigliettini, a gesti estemporanei, pur di comunicare. Erano previste ammende per i contravventori, anche per chi parlava in auto nel traffico cittadino, col finestrino aperto. In casa! Quello era il posto dove parlare normalmente, ma senza gridare, conversando per giunta con le finestre chiuse. La banchina della sotterranea pullulava di studenti in viaggio per la scuola (erano da poco passate le otto), che con la capace destrezza giovanile, gesticolavano a tutt’andare, raccontandosi chi sa che cosa col nuovo linguaggio imparato da poco. Da osservatore, Leo prese atto di questa nuova realtà. A causa della velocità dei loro discorsi muti, riconosceva i gesti del sì e del no fatti con la testa ed i sorrisi che animavano le loro conversazioni. Peccato che non capiva gli argomenti del loro contendere. Viaggiando, decise che la prima tappa sarebbe stata la Stazione Termini. Arrivato, uno strano silenzio dalle scale che lo portavano alle piattaforme dei treni lo avvolgeva, si propagava in modo irreale. Le architetture, gli arredi, le scale stesse e lo spazio intorno sembravano congelati, ostili o indifferenti. Le persone erano come automi. Anche donne bellissime, senza la facoltà di eloquio, divenivano compassati manichini. Una luce fredda, spettrale, inondava quel luogo rendendolo avverso. Leo in passato aveva frequentato molto la Stazione e ora stentava a riconoscerla. Era sempre stata sinonimo di chiasso, di confusione, rumore disordinato. Adesso era immersa nel silenzio. Qualche colpo di tosse inevitabile qua e là, il pianto di un bambino in carrozzina più giù, rimandavano un’eco sconosciuta, mai pensata o sentita. Poi, finalmente una voce: “E’ in partenza dal binario otto il treno dell’alta velocità per Venezia.” Un piacere ascoltare l’altoparlante. Leo ne provò soddisfazione, tanto che poi quasi non lo sentiva più, per la contentezza di aver inteso una voce umana in pubblico, seppur registrata. La regola del passaggio a livello era: “una volta saliti sul treno, poco importa quanto si è atteso presso i binari.” Uscito dalla Stazione, si trovò nel brulicante viavai metropolitano. Pensò quanto fosse strana la consueta realtà cittadina, divenuta un film interpretato solo dai rumori automobilistici. Per il resto era avvolto dal brusio della città. Quando le automobili erano ferme ai semafori, sentiva questo sommesso rumore di fondo. Leo lo paragonava ad una nebbia, una coltre leggera che univa tutto, persone, case, mezzi circolanti lontano e non dava fastidio. Si lasciava intendere, era la presenza intima della città. L’insolenza dei motori rombanti invece copriva questo respiro totale, lacerandone la quiete. Indugiò per un po’ sul Piazzale della Stazione, testimone di scene inusitate, mosse dalla premura di comunicare pur senza conoscere il linguaggio dei segni. Qualcuno si era munito di carta e penna, altri facevano gesti estemporanei. Una giovane coppia manifestava l’esuberanza di lui che platealmente mimava cose personali e lei che replicava con discrezione, quasi nascondendo i gesti di risposta, temendo pudicamente che poteva esser vista. Leo si incamminò da Termini per Via Vittorio Emanuele Orlando, fino all’incrocio con Piazza San Bernardo, che poi diventa Largo di Santa Susanna ed infine Via XX Settembre. Prima di svoltare, la Fontana Mostra dell’acquedotto Felice posta sull’angolo, era la sua tappa obbligatoria. Oltrepassata la balaustrata, superata la sorveglianza di quattro leoni di foggia egizia a guardia delle tre vasche, Leo girava a sinistra per dissetarsi dalla prima bocca d’acqua. Il percorso a ritroso per uscire dalle colonnine, gli faceva vedere in alto, al centro del manufatto, l’incombente statua di Mosè, dalle fattezze vagamente michelangiolesche, tozza, ridicola, brutta, a detta del popolo che così ne parlò dal giorno dell’inaugurazione. In effetti anche Leo, da quando la vide la prima volta, pensò che qualcosa non andava. In mente aveva un pensiero: “anche questa occasione sarebbe un regalo per Aba. Ma credo che sia soltanto mio il piacere di averla accanto e con lei osservare questi curiosi particolari. Vederla sorridere, ravviarsi i capelli con la mano, guardarmi con uno sguardo acuto e poi chiedermi qualcosa, mi dà una gioia intensissima. Se non accade, mi pervade un dolore che non si placa.” Sospirando, tornò alla sua visita. Già da questo lato dell’incrocio si nota una chiesa subito dopo l’angolo, in via XX Settembre, trionfo di marmi barocchi come tante ce ne sono in città, contenente un tesoro impareggiabile dell’arte. Il portone d’ingresso è posto all’angolo con l’incrocio lambito da decine di mezzi di trasporto più disparati: autobus del servizio urbano, torpedoni turistici, tassì, ambulanze, automezzi privati o delle forze dell’ordine, ciclomotori e biciclette. Insomma non c’è nessuna limitazione al transito veicolare. Questo comporta un disagio per i crocchi di visitatori che in attesa di entrare, restano su uno stretto marciapiede, rischiando contatti pericolosi con gli automezzi a poche decine di centimetri. La facciata monumentale è di fronte, all’altro lato della strada, senza una piazza o uno slargo che la faccia notare e ammirare nella sua interezza. Soltanto una breve scalinata di marmo bianco ne annuncia la presenza. Anche Leo era fra i visitatori in attesa. Conoscendo la pericolosità di quel luogo, attendeva discosto, con un maggiore spazio di sicurezza. Pensava alla regola: “quando le sbarre sono abbassate non si possono oltrepassare attraversando i binari.” E’ come se si volesse forzare la realtà e non fare la fila per entrare nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria. Osservando le persone in attesa, si soffermò su alcuni disagi nella comunicazione che qualcuno appalesava. Il più comune riguardava i turisti stranieri. Avrebbero parlato volentieri un italiano, pur se raffazzonato, misto all’inglese. Porgendo un taccuino per farlo leggere, moltissime persone di rimando facevano il gesto di non capire. Chi, tra questi frustrati visitatori conosceva il linguaggio dei gesti, li esprimeva nella propria lingua, e si era daccapo con la comprensione. Infine Leo pensò che le comunicazioni minime per la sopravvivenza possono risultare da una sorta di gioco dei mimi, che unisce persone di ogni provenienza. Tutto questo in barba al decreto governativo. Il silenzio sarebbe mantenuto ed ognuno penserebbe ai concetti da esprimere, senza sprechi di energia e con immediata chiarezza. Affisso sul portone dell’edificio di culto, un cartello indicava l’orario delle Sante Messe. Spiegava che durante le funzioni l’illuminazione delle opere d’arte era spenta, ma si poteva fare la visita tra una Messa e l’altra. Ricordava che non si trattava di un museo ed anche per le visite si richiedeva un contegno confacente al luogo sacro. Un lampo nella mente ed un sorriso in volto: Leo aveva appena pensato ad una nuova regola del passaggio a livello. “Si deve attendere, per non fare danni, che le sbarre siano completamente sollevate, poi si potranno attraversare i binari.” Come dire che non si può interrompere il celebrante in chiesa per vedere le opere d’arte anzitempo. Una volta entrato, lo stuolo di visitatori si diresse subito presso il transetto di sinistra. Anche Leo era davanti alla meraviglia che conteneva. Pensava che se avesse dovuto descrivere quello che vedeva, nessuna frase avrebbe mai reso la bellezza, la grazia e la potenza espressiva della Transverberazione di Santa Teresa d’Avila, forse il più evocativo gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini. Notò subito l’apertura nel soffitto protetta da un vetro giallo, che imitava la luce solare. Vide che dall’apertura si diffondevano raggi di luce materiali, solidi, di bronzo dorato. Tutto l’impianto dava al marmo delle statue un leggero riflesso color d’oro, molto tenue. Straordinariamente il gruppo marmoreo, sospeso da terra, aveva una novità, una arditezza mai usata nella scultura. La stoffa che ricopriva Teresa, usciva dal marmo con cui era scolpita, protendendosi verso i visitatori, come se balzasse in avanti, senza ricadere per gravità, come solitamente gli scultori fanno con i drappeggi. “Appena ci incontriamo, devo raccontarlo ad Aba. Entrambi veniamo da reminiscenze scolastiche e da ulteriore conoscenza letteraria, ma vedere l’opera così, vicinissima, è come essere immersi in una bellezza totalizzante. Chissà se potremo tornarci insieme per condividere questa splendida emozione. Il prezzo da pagare sarà la vista del Mosè Ridicolo, ma vale la pena oltrepassare queste Forche Caudine per entrare in chiesa.” Comparve il sacrista, che a bassa voce ricordava che stava per iniziare una nuova funzione e andò a spegnere le luci dell’opera d’arte. Era questo il segnale che ricondusse Leo alla realtà esterna, pur se aveva ancora davanti l’immagine dell’Estasi. “Sono in perfetto orario per la pausa pranzo di Aba,” pensò ed uscì con gli altri visitatori all’aria aperta. “Le ho promesso di sentirci per telefono, diamoci da fare.” Distribuite per la città c’erano le antiche cabine telefoniche pubbliche a forma di conchiglia in plexiglas, ripristinate per decreto, ma sguarnite di apparecchio. Erano delle semisfere, usabili tenendoci la faccia dentro per comunicare senza disturbare vocalmente. Leo aveva l’intenzione di trovare una guscio nei pressi per parlare con Aba. Mentre si incamminava cercando uno di questi moderni confessionali, ripensava alla Cappella Cornaro di Santa Maria della Vittoria ed al suo emozionante contenuto berniniano. Era rimasto folgorato dalla bellezza dei due corpi, dall’atto immortalato, dal sorriso efebico dell’angelo e da Teresa, nell’abbandono dell’estasi, senza pudori. “Pronto. Il cacciatore di emozioni ha con sé un bottino preziosissimo che ti reca in dono.” “Ciao Leo, sei in pausa pranzo e si è alzato il tuo valore della glicemia, scommetto.” “E’ bello sentire che mi sopravvaluti, anche se noi timidi ne restiamo piacevolmente basiti. Aba mettiti comoda. Sono rimasto estasiato dall’estasi, transverberato dalla transverberazione di Teresa d’Avila. Seriamente: sono andato a vedere il più bel gruppo marmoreo del mondo.” “Se è quello del Bernini ti invidio, Leo. Non ho mai potuto ammirarlo di persona.” “Facciamo così: cena buona e leggera e racconto della giornata. Dammi il permesso di cucinare per te. Porto tutto io e anche tu cadrai in estasi. E’ andata?” “Leo tu continui ad insistere con la tua timidezza, ma io la chiamerei audacia. Vada per la cena da me. Aspetto che mi dica dell’estasi del Bernini. Mi par di ricordare il piede sinistro nudo di Teresa, non vorrai mica…” Leo interruppe la sua amica: “Da qui a stasera Aba, pensa ai tableaux vivantes del XIX secolo che ci torneranno utili. Sono pervaso da una grande emozione a causa tua. Potrò raccontarti della mattinata, della transverberazione e dividere con te l’immenso piacere provato. Il cacciatore avrà altre emozioni da cacciare. Spero che tu stia al gioco, Aba. Sei anche fortunata. Stasera potrai sfoggiare quel bellissimo abito di pizzo color dell’acquamarina che ti rende seducente più di quanto tu già non sia.” “Caro Leo, ma come fai ad essere così? Cretino ma intelligente, arguto ma infantile?” “Deve essere amore, Aba.” Con il cuore traboccante per le emozioni vissute e per aver avuto il consenso di Aba di vedersi per cena, Leo tornò verso casa, fermandosi dai suoi negozianti di fiducia, chiedendo gli alimenti con cui voleva fare bella figura. Rientrato a casa, mangiò qualcosa pensando alle sue regole del passaggio a livello: “non ti sorprendere se le sbarre si abbassano in ritardo. Si spera che anche il treno lo sia.” Aprendo la lavastoviglie pensò: “non ti sorprendere se le sbarre si alzano in anticipo. Si spera che anche il treno lo sia.” Finì di sbarazzare i resti del pranzo e intanto rimuginava tra se’: “ci sorprendiamo forse se un passaggio a livello fa le sue manovre puntualmente? Non è quello che si vuole?” Sentiva uno struggimento profondo, un piacere ed un languore per Aba, stavolta evocato dalla visione dell’Estasi. Riandava col pensiero indietro nel tempo, quando i loro rapporti erano più intensi e soddisfacenti. Poi il concorso per la regìa di lei, la carriera concertistica di lui, videro il loro amore fermarsi in un’ansa del fiume degli affetti. Non era colpa di nessuno. Entrambi erano alla ricerca del meglio e non pensavano di averlo accanto. Tornarono poi reciprocamente ai pensieri amorosi, così, con la voglia che fosse l’altro a dichiararsi per primo. Ognuno voleva sentirsi chiedere: “mi ami?” Avrebbe risposto subito affermativamente per donare e ricevere amore. Vestì con abiti e scarpe comodi e a passo veloce fece il giro del quartiere. Man mano i pensieri passionali si quietarono e, tenendo il tempo camminando ritmicamente, cantò in mente tutto il concerto che avrebbe eseguito da lì a pochi giorni con il suo gruppo musicale. Tornato a casa prese qualche appunto per gli assolo che avrebbe suonato. Era quasi l’ora. Aba! Preparò una camicia fresca di bucato, le scarpe lucidissime per la sera ed entrò nella doccia. Intanto Aba aveva terminato, in sala di montaggio, di preparare i servizi filmati per i programmi televisivi del giorno dopo. In quanto regista, era questo uno dei compiti della sua professione cui doveva attendere. Le piaceva, aveva modo di sfoggiare le sue conoscenze nei vari campi del sapere. Inoltre ragionava di cose tecniche con chi faceva le riprese, il montaggio, la sonorizzazione dei filmati. Le sue soddisfazioni andavano di pari passo con la fatica e l’attenzione che comportavano. Per questo era ben retribuita, ma di contro era responsabile in toto del lavoro. Come scriveva alla fine dei suoi temi alle Elementari: “siamo tornati a casa stanchi, ma felici.” Questo accadeva pressoché tutti i giorni, ma con la sua bravura riusciva più volte la settimana a terminare prima. Era il momento in cui si concedeva un’ora in una SPA o più prosaicamente faceva la spesa ed il bucato. A volte spariva dal parrucchiere con una amica che vedeva in lei l’archetipo di tutte le donne. La grande difficoltà di comunicare in un luogo deputato alle ciance ed ai pettegolezzi era superata mercé la complicità del parrucchiere che aveva per loro una postazione lontana dall’ingresso. La musica di sottofondo ed un attento servizio di vedetta da parte delle lavoranti, fugava ogni possibilità di essere scoperte. Oltre alle lusinghe dell’amica, la cosa cui teneva di più era il rapporto con Leo. Aba non voleva darlo a vedere, non voleva che Leo si montasse la testa e diventasse appiccicoso. Lo voleva così, affettuoso e disponibile. Gli mancava, però, anche per quello che c’era stato fra loro. Non voleva lusingare Leo che era sempre pronto ad approfittare di qualunque pretesto per poterla baciare, stringere o accarezzare. Quel pomeriggio era dall’estetista, la sera avrebbero cenato insieme. “C’è qualche contraddizione? Come mi sto comportando? Ma Leo, quel timido buffo, mi piace e lui non si smuove. E se si dichiarasse?” In anticipo sull’ora convenuta, Leo si presentò a casa di lei. Aba era già pronta, ma rispose di attendere, con un vezzo tipico nel loro rapporto. Infine, con gli involti per la cena in manoe l’animo in subbuglio la vide. Aba sulla porta era splendida, desiderabile. Leo anziché entrare, la abbraccio e baciò con voluttà, come poteva. Con le mani ingombre ogni movimento era impacciato e non poteva stringerla a se’. “Benvenuto Leo. Ti prego di calmarti e di serbare questa foga per il lavoro di cuoco che ti attende.” “Aba, non sai quante emozioni! Ne ho fatto incetta per dirtele. Andiamo in cucina, mi farai compagnia mentre preparo la cena e ti racconterò quanto c’è da sapere.” Leo prese le pentole che occorrevano, sorridendo mostrò l’etichetta della bottiglia ed Aba mise il vino in fresco. Mentre apriva gli involti Leo sentenziò: “Bernini è un grandissimo regista. Ogni sua scultura è un momento di teatro. Nell’Estasi questo effetto di composizione dei personaggi quasi spaventa, rapisce.” Aba intervenne e Leo approfittò per togliersi la giacca e preparare un brodo vegetale leggero per cuocere il riso. Era esperto e veloce. In pochi attimi il brodo bolliva. “Sai Leo, va considerata anche la plasticità dei soggetti e la scena nella quale sono disposti. Non so se sia una furbizia o una grande attitudine di Bernini. Di fatto, con lui funziona sempre.” Mentre indossava un paravanti da cucina, Leo istruì Aba: “per favore Aba, riduci in striscioline carota, finocchio e ravanello con la mandolina ed immergili in acqua e ghiaccio per farle arricciare. Non ti chiedo altro.” Leo armeggiava con la pentola dove stava tostando il riso. “Le due espressioni, di Teresa e dell’angelo sono reali, vere. Lei, sotto il velo che le copre il capo, ha un’espressione di piacere voluttuoso e di amore mistico. L’angelo non ha nessun pudore. Sorride malizioso e con la mano scosta la stoffa che copre il petto di Teresa per poter lanciare meglio a bersaglio il dardo con l’altra mano.” Aba ha terminato con le verdure e continua la conversazione: “E’ interessante che l’angelo sia a torso nudo e mostri il corpo muscoloso, sorridendo maliziosamente, riccioluto ed efebico. Il corpo di Teresa, sotto l’abbondanza del panneggio, si può soltanto intuire.” Ormai Leo è alle prese con un’altra padella: “Aba dimentichi che i due sono sospesi in aria sotto i raggi del sole e nel punto più basso c’è il piedino sinistro nudo di lei.” “Ecco dove volevi andare a parare! Adesso scusami, vado a prendere qualcosa per coprirmi le spalle che ho freddo.” Leo intanto, velocemente riempie due calici di vino, pensando che le sbarre del passaggio a livello funzionano tutti i giorni e sempre allo stesso modo, (regola lapalissiana, quanto il freddo delle donne), ed attende pronto, il ritorno di Aba. Appoggiato sulle spalle ha un bellissimo scialle color perla, elegantissimo, che la rende ancor più affascinante. I due ora sono vicini ed in silenzio Leo le offre uno dei calici. Brindano e si sorridono. Con un bacio sfiora la guancia di Aba e torna a sorriderle. Lei con malcelato imbarazzo acconcia lo scialle, che non aveva nessun bisogno di essere sistemato. Ora Leo sta curando la cottura del salmone che ha unto e messo in padella dal lato della pelle. Il riso quasi cotto attende sull’angolo del fornello che il suo condimento venga completato. Scolata l’insalata, Leo aggiunge foglie neonate di spinaci e una delicata vinaigrette. “Tutti questi odori mi risvegliano l’appetito! Ci vuole ancora molto, Leo?” “Tutto fatto. Ti puoi accomodare a tavola e versare il vino. Io ti seguo con le portate.” L’appetito di Aba obbedì prima di lei ed in un attimo era seduta in attesa. Leo si avvicinò con i piatti pronti ed iniziò a declamare cosa mangeranno per cena: “Risotto mantecato al limone, salmone arrostito con salsa di yogurt greco, olio e limone. Insalatina di sfoglie di carote, finocchio, ravanelli, spinaci in germoglio. Non è previsto nessun dolce, sicuramente ci fermeremo prima.” ”Bravo Leo. E’ tutto gustoso e ben dosato. Non conoscevo questa tua delicatezza nel cucinare.” “Adesso Aba, soddisfatta dalla cena, farai una cosa per noi due.” Guardò Leo con esitante curiosità. Lui era in piena estasi creativa. Oltre il divano, aveva disposto una sedia. Invitò Aba a salire in piedi sul divano: “Togli le scarpe e tieni lo scialle come se fosse il velo di Teresa.” Titubante, ma incuriosita lei obbedì. Intanto, audacemente Leo aveva tolto la camicia e a torso nudo stava in piedi sulla sedia, rivolto verso Aba. “Ecco la situazione, più o meno fedele all’originale, almeno nell’intenzione. Manca l’espressione desiderosa verso l’angelo e il piedino che dovrebbe penzolare fuori dal divano. Io sarò malizioso e seducente, col sorriso ammiccante ed irresistibile. Proviamo, dai.” Aba era stupita dalla sicurezza mostrata da Leo. Come poteva non considerare la situazione e la persona che le stava dedicando cure ed attenzioni per un gioco così leggero e divertente? “Aba, devo scendere dalla mia posizione per controllare l’effetto del tableau vivant.” Appena sceso, prese tra le sue mani il volto di lei per darle inclinazione, acconciò come poté lo scialle intorno al corpo, indugiando per garantirne l’effetto. Aba in tutto questo provava un piacere profondo che dissimulava con l’immobilità richiesta. Infine Leo arrivo al piedino pendente e iniziò a carezzarlo. Il divano fu complice e discreto testimone del loro incontro sensuale. “Cosa abbiamo atteso, per tutto questo tempo?” Era la domanda retorica di Aba, mentre passava le mani sulla testa e il collo di Leo che riemergendo col volto dai seni di lei esclamò: “Ci voleva Bernini per farci capire l’errore di questi mesi. Ti amo.” Aba tolse l’abito color dell’acquamarina e con la pelle nuda, stringendosi a Leo sussurrò: “Anch’io, sciagurato!” Fecero la doccia insieme e per rilassarsi stettero vicini, accarezzandosi i corpi. Aba volle sapere le notizie del giorno. In quel momento il televisore annunciava che era stato abolito il decreto governativo che vietava di parlare in luogo pubblico. I due sorrisero e continuarono ad abbracciarsi. La regola di Leo: “il passaggio a livello comanda le sbarre per far felice chi vuole passare.”
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