Marisol
Nell’anniversario del sacrificio di Marisol ho chiesto a Filippo Golia del TG2, inviato in zone di guerra, di scrivere sul concetto di paura che un giornalista deve affrontare andando a lavorare in zone pericolose.
Marisol non è stata “inviata” da nessuno nella zona di confine più pericolosa che esista tra il Messico e il Texas, se non il suo forte spirito combattivo a favore della causa dei migranti.
Anche lei aveva paura, non era una incosciente, ma è andata fino in fondo alla sua scelta.
Andrea Cantaluppi
Senza paura
Una volta ho avuto paura. Camminavo a circa tre metri da terra su una rete di corde e mi reggevo con le mani a un’altra corda sopra la mia testa. Tutto ondeggiava fortemente e non mi sentivo per nulla sicuro del passo successivo, che avrebbe potuto restituirmi al vuoto sotto i piedi. Poco dietro di me c’era mio figlio di 7 anni: mi sembrava molto più tranquillo. Eravamo lungo un percorso di un parco avventura, pesantemente imbracati e legati da moschettoni che garantivano la nostra sicurezza. Anche se i moschettoni, a ogni cambio di fune, andavano sganciati e poi riagganciati.
E la mia vera paura, quella più profonda, riguardava proprio me stesso e quel gesto: avevo davvero riagganciato il moschettone al cavo di sicurezza o stavo allegramente camminando su un ponte tibetano, con diversi metri sotto i piedi e nessuna protezione? Guardare in alto per verificare non era prudente, nulla di meglio per perdere la concentrazione. Quindi facevo ancora un passo e pensavo: meglio non farsi prendere dal panico.
Ma in fondo eravamo in una specie di Disneyland. Del resto, per dirla tutta, un’altra grande paura l’avevo provata pochi mesi prima proprio a Disneyland Parigi, sempre con mio figlio, su una delle tante montagne russe del parco: i carrellini scivolavano nel buio più completo e durante una lunga discesa mi ero detto che non si sarebbero arrestati più… Il bambino rideva a più non posso.
E’ strano quindi che a Gaza, due anni fa, durante l’operazione Margine protettivo, l’attacco israeliano sulla città durato circa due mesi, sotto i primi bombardamenti, io fossi assolutamente sereno. Con una collega ci trovavamo nel palazzo dei media, all’ultimo piano, nella sede dell’Associated Press e a un certo punto una salve di razzi M75, quelli utilizzati dai gruppi armati di Gaza, è partita proprio dalla base del nostro edificio.
“Ora gli israeliani bombarderanno qui, in risposta” mi sono detto. Eppure ho continuato a lavorare, pensando solo al servizio che dovevo inviare. Certo, ogni tanto mi succedeva di immaginare il palazzo squassato all’improvviso, la polvere, il fumo, le fiamme e poi, naturalmente, più nulla. Erano fantasie di un istante mentre per molti, a poca distanza, era la tremenda realtà. Io continuavo a scrivere e montare.
<<La paura è uno strumento di lavoro. Ti aiuta a valutare i pericoli e le tue mosse. Ma come il martello del carpentiere devi saperla usare, perché se la maneggi male, lasciandola diventare panico, ti puoi frantumare una mano, anche se stai piantando un semplice chiodo>> ha scritto di recente un collega e amico che di sicuro si è spinto molto più in là di me in situazioni di rischio, a volte anche estremo.
La definizione è bellissima e pensata benissimo eppure non mi convince del tutto. Presuppone che la paura sia una sola e quindi che sia possibile conoscerla e gestirla. Ma la paura ha tante forme, cambia continuamente, non si lascia afferrare e nemmeno prevedere: la collega che si trovava con me nel palazzo dell’Associated Press aveva alle spalle molti più conflitti di me, che ero al primo. Eppure quel giorno, al cadere delle bombe dal cielo, aveva perso la testa, sembrava fuori di sé. Sono andato io a recuperare le sue cose in Hotel, mentre lei terminava il suo reportage. I nostri giornali ci avevano ordinato di lasciare Gaza al più presto.
Mi ha accompagnato in auto il mio fixer, Sami Arjami, uno che mesi dopo ho sentito ridacchiare al telefono: “Si, sono sopravvissuto a un’altra guerra – diceva – deve essere la sesta”. L’automobile correva per le strade mentre intorno, a volte vicino a volte lontano, si sentiva il rimbombare delle esplosioni. Quando siamo arrivati nella fascia degli hotel, un zona protetta, in teoria al sicuro dai bombardamenti, mi sono voltato verso Sami e gli ho chiesto:
“This is safe area?”
E lui: “Yes!”
“Are you sure?”
“Yes”, mi ha risposto, quasi offeso dei miei dubbi.
Ho fatto un lungo fischio, come a dire: “Ehi…Siamo salvi!”. Lo ha accolto con una fragorosa risata.
Averlo fatto ridere mi faceva sentire ancora più sicuro per il viaggio di ritorno.
Ma allora sono molto coraggioso? Per nulla. L’effetto montagne russe, quella mano che ti strizza lo stomaco, arriva quando meno lo immagini: quando ti dicono che parti per la Libia… quando stai andando verso la frontiera siriana, in Libano.
Era pomeriggio inoltrato ma il reportage sugli ultimi villaggi cristiani prima del confine siriano e delle postazioni più avanzate dell’Isis non giungeva a conclusione rapidamente come avrei voluto. Servizi segreti e polizia avevano raccomandato a Kinda, la fixer con cui lavoravamo io e il cameramen Fabrizio Silani, di non tornare verso Beirut col buio. E naturalmente di non fermarsi a dormire vicino al confine. Molti dei villaggi sunniti sulla frontiera tra Libano e Siria erano considerati a rischio di infiltrazione da parte dello Stato islamico e sulla via del ritorno avremmo semplicemente dovuto attraversarli. Col buio nessuno avrebbe potuto garantire la nostra sicurezza. Cercavo di spingere per terminare in tempo le ultime interviste, le ultime immagini. Ma uno dei capovillaggio, dopo averci mostrato le difese predisposte dai cristiani in caso di attacco, la tirava per le lunghe e voleva intrattenerci ancora nel suo salotto.
Quando alla fine siamo riusciti ad andare via il sole tramontava.
I fantasmi che si sarebbero agitati dietro qualsiasi intoppo nel nostro ritorno, anche un fermo momentaneo per un controllo sulla strada, li conoscono tutti: rapimenti, scomparsa, possibile riapparizione in veste di prigionieri, eccetera.
Ma a me era semplicemente l’idea che qualcuno potesse fermarci, forse solo farci perdere un’ora o due, che faceva accapponare la pelle. In quel momento il desiderio di essere semplicemente a casa (casa si fa per dire: un hotel, sempre esposto al rischio di attentati) a Beirut, era incontenibile. Qualsiasi cosa si fosse opposta a quel desiderio avrebbe potuto piombarmi in un buio più nero della notte che scendeva troppo rapidamente.
Eppure ho continuato a mostrarmi allegro, a mantenere la calma.
Ma ci sono anche casi in cui non credo ci sarei riuscito: da quando è esplosa l’epidemia di Ebola in Sierra Leone e Guinea nel 2015, mi sono chiesto a lungo con che spirito sarei andato laggiù, se me lo avessero chiesto. Non lo so. Nessuno mi ha domandato di partire. Dicevo che le paure sono tante e raccontano qualcosa di noi. Quello che mi avrebbe paralizzato in mezzo all’epidemia sarebbe stata l’idea di rimanere fregato da un mio impercettibile errore: un dito portato vicino a un occhio prima di disinfettare la mano, uno sbaglio nell’infilare una tuta protettiva. Come quando stavo sul ponte tibetano e mi chiedevo se davvero avessi riagganciato i moschettoni al cavo di sicurezza. Far collidere la mia naturale distrazione con un pericolo mortale avrebbe creato un corto circuito che probabilmente avrebbe favorito l’errore. Non so come avrei affrontato il tutto.
Due anni dopo il terremoto e l’incidente, sono stato a Fukushima. Mi sono aggirato per giorni in città deserte e quartieri abbandonati. Se riprendiamo la metafora coniata dal mio amico e collega: la paura uno strumento da utilizzare come un martello ma stando attenti a utilizzarlo con perizia, per non fracassarsi la mano, magari solo per piantare un chiodo, beh… in quell’occasione credo di aver compiuto un miracolo: non mi ero portato il martello ma mi sono lo rotto stesso il dito.
Per quanto sapessi che correvo dei rischi ad aggirarmi in quelle zone, la paura non mi ha aiutato a frenarmi: del resto, come distinguere una strada in cui non addentrarsi da un’altra in cui andare avanti; un invito a pranzo da accettare sereni e un cibo da evitare perché coltivato in terre contaminate dalle radiazioni?
E poi era troppa l’emozione di trovarsi in quei luoghi, conoscere quelle persone, raccontare quelle storie. Nessun timore, dunque. Ma il dito me lo sono rotto perché tutto è arrivato dopo: la paura di aver varcato qualche soglia che non avrei dovuto superare, di aver sbagliato qualcosa. Una paura che mi accompagnerà per anni, a rilascio lento.
E un’altra volta, a Gaza, il giorno in cui il mio fixer mi ha proposto di raccontare un grande matrimonio, offerto dall’Unrwa, in un giorno di tregua. Poco distante un altro giornalista italiano, un ragazzo figlio di una persona che ho conosciuto bene, è andato a raccontare il disinnesco di una serie di bombe inesplose. Ma una è detonata durante l’operazione e ha innescato le altre, mentre lui era lì, uccidendolo. E io mi sono trovato a raccontare la sua morte.
Se quel mattino il mio fixer mi avesse proposto la storia delle bombe e il suo gli avesse parlato del matrimonio, lui avrebbe raccontato la mia morte.
E questo è come aver piantato un chiodo, con quel martello di cui dicevamo, nel mio passato. E non riuscire, per quanto si vada avanti, ad allontanarsene mai abbastanza.
Filippo Golia. Giornalista del TG2.
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