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“Memorando Contagio” del 1630

Si tratta di un resoconto redatto da Lorenzo Ghirardelli nel 1630, cancelliere di Bergamo, sulla peste che colpi la città orobica. Si tratta della cosidetta “peste nera”, responsabile per la morte di circa 20 milioni di persone in Europa. E’ anche menzionata nei Promessi Sposi da Manzoni: egli descrive la peste del 1630, anche se le immagini dei luoghi e le situazioni sono ancora quelli di cinquant’anni prima, cioè della peste al tempo di san Carlo. Nel primo di 8 volumi dedicati al terribile morbo, il cancelliere di Bergamo, Lorenzo Ghirardelli, descrive con dovizia di particolari le cause principali del contagio.

La prima di queste era dovuta alle condizioni di povertà e fame in cui versavano le popolazioni bergamasche. Il cibo scarseggiava ed i mendicanti crescevano a dismisura in città e zone adiacenti. Scarseggiavano i generi alimentari: il sale non si trovava e l’olio si vendeva a caro prezzo e così pure uova, carne di vitello e capretti. Il cancelliere di Bergamo annovera fra le cause anche l’ invasione dei Lanzichenecchi, con l’ assedio di Mantova nel 1630.

Vennero prese delle misure disciplinari per contrastare la diffusione dell’epidemia. Con Ordini per purgar le terre di Bergamo, le persone infette venivano allontanate dalla città o costrette a restare chiuse in casa o in baracche comuni che non dovevano abbandonare, sotto pena anche di morte sicura. Nei primi mesi del 1630, con la crescita di vittime, vennero imposte restrizioni che, a distanza di quasi 400 anni, si avvicinano alle nostre di oggi: i parroci non dovevano predicare in chiesa, ma nelle piazze dei paesi, dividendo gli auditori e rari facendoli stare; ai bottegari di mantenere di tenere monde e ben purgate le strade davanti alle loro botteghe; ai poveri mendici forastieri, era proibito l’ accesso alla città; e la sepoltura dei propri morti doveva avvenire fuori delle mura. Esisteva il divieto severo di frequentare hosterie, ma anche li toccamenti di mano erano dismessi fra gli amici, così gl’amplessi e il baciarsi vicendevolmente, ogni uno stava sul contegno guardingo nell’appressarsi alle persone.

Un po’ come sta avvenendo ai nostri giorni, 390 anni fa, si imponeva ai contagiati l’isolamento obbligato, la quarantena forzata e la sospensione di quasi tutte le attività. A quanti erano autorizzati di spostarsi da un luogo ad un altro, le norme prescrivevano di portare in mano una palla rotonda fabbricata di cipresso, o di lauro o di ginepro o altro legno odorifero, vuota di dentro e d’intorno perforata, la quale potendosi aprire e serrare, rinchiudeva per l’ordinario un pezzetto di spogna nuova inzuppata nell’acqua rosa, malvagia e buon aceto rosato. Venivano accesi grandi fuochi nelle piazze pubbliche, bruciando soprattutto piante resinose, per risanare l’ambiente.

Nei mesi estivi del 1630, il contagio raggiunse il suo massimo: più carri tirati da più giumenti facevano l’offitio di feretri, correvano le piazze, e le strade, come se trionfassero nello stadio Olimpico della Morte. Gli Pizzicamorti li conducevano alle tombe comuni dai nettezzini (becchini).

Anche allora, la Lombardia era prima nella classifica dei morti e contagi, seguita dal Veneto. Le stime approssimative ritengono che a Milano e dintorni morirono di peste oltre 140.000 persone e a Bergamo 55.000. Città e paesi limitrofi dimezzati, quando non decimati.

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