Filippo Roncaccia racconti breviRacconti Brevi

PERLA HA SCRITTO “OIK!”

In una casa dove girano così tante piccole anime un caso come quello poteva capitare e, anzi, a coloro che certe cose le sanno potrà apparire una vera e propria normalità. Infatti da principio l’ho pensato pure io. Per l’appunto, oramai qualche tempo fa, stavo scrivendo al computer e la gatta Perla, che in casa viene soprannominata la duchessa, si è messa a passeggiare regalmente sulla tastiera dando luogo ad una delle miriadi di performance d’arte involontaria che vengono compiute da quando è stato inventato il personal computer. Non si può mandarla via nemmeno gentilmente altrimenti il suo spirito aristocratico s’inalbera e incomincia a picchiare gli altri gatti, maschi, femmine, più o meno grandi o piccoli non importa. Così, finita la camminata con annessa richiesta di coccole, esaudita per carità!, ho fatto quello che fanno tutti, contando i danni intervenuti su quello che avevo già scritto. E allora ho visto “oik!”; l’ho cancellato col consueto sorrisetto però poi qualche cosa m’ha portato a mettermi a guardare passo passo la tastiera per vedere in che modo era potuto venire fuori “oik!” e, tutto è possibile mi direte voialtri e vi crederei per carità, però per quello che posso capirci io mi pare che significato a parte sarebbe stato quasi impossibile scrivere “oik!” per caso. Avete visto come stanno vicine la o la i e la k? E poi perché il punto esclamativo sta proprio preciso alla fine della parola? Dato per normale il fatto che la distanza tra la kappa e il predetto segno d’interpunzione è giusto giusto uguale al passo medio di un gatto però poteva venire fuori, per esempio, “o!ik”? Perché invece l’esclamativo è andato a finire preciso al millimetro dove avrebbe potuto volere un ipotetico, segreto e misterioso linguaggio gattesco? Alle quattro sono sceso a prendere il the. Non c’è nessun altro scopo, lo faccio solo per evitare il traffico delle cinque; tutte quelle chiacchiere da salotto m’inquinano l’aria; alle quattro invece si va lisci lisci , si sta quasi da soli e si pensa meglio. E a quello che mi pareva, da pensare ce ne sarebbe stato. Buttate via tutte quelle panzane da cinema hollywoodiano di animali che dicono buffonerie da sala, rimaneva il mistero grosso e pesante di quello che avevano scritto e raccontato i grandi del nostro passato. Quando le bestiole decidono di farci conoscere quello che custodiscono in cuore devono essere sempre, o quasi, cose serie. Allora sarebbe stata una cosa soltanto nostra, cioè tra me e lei, oppure un fatto che riguardava il branco, ovverosia la famiglia? Oppure, non sottovalutando il fatto che Perla è veramente un animale pieno di saggezza, c’era qualcosa da dover dire a mia volta a qualcuno? Ma a chi, dunque? La folla in generale, una particolare categoria di persone, i mas media così rimaneva tutto com’era e ci saremmo tolti la faccenda dalle scatole? O addirittura, Dio non l’avesse mai voluto, si doveva avvertire qualche autorità? Andare appresso ai pensieri di un animale può portare fuori contesto e allora, almeno a me faceva quell’effetto, finisci dentro lo scatafascio dei pensieri e vai appresso alle idee da animale che ti vengono in testa per prime. Raffiche di fandonie capaci ognuna di far partire un corrispondente provvedimento di polizia psichiatrica delle quali l’unica che mi sento capace di dirvi fu il pensiero, al quale non fu dato seguito, di tentare l’immedesimazione con Perla mettendomi a quattro zampe e rotolarmi in cerca di comprensione come fa lei con noialtri di casa. Tranquillizzatevi, però, mi sono reso conto abbastanza immediatamente che noialtri esseri umani non siamo tagliati per pensare in quella maniera e così sono ritornato alle congetture. Non c’era niente di brillante in tutto ciò ma mi risolsi a pensare che se Perla aveva voluto dirmi “oik!” era convinta che in qualche modo “oik!” io l’avrei capito. Va bene, un essere dotato di saggezza e buon senso come la gatta anziana di casa non doveva essere messo in discussione più oltre perciò, pensai, “Andiamo avanti e riflettiamo”. Ho deciso di uscire. La campagna qui è magnifica. Anzi, possiamo dirlo tranquillamente, è uno degli ultimi veri tratti rimasti della campagna migliore d’Italia. Roma e i paesi vicini vorrebbero servirsene per altre cose facendo finta di ignorare che il Lazio antico era ed è, per il poco che ne resta, un posto di bellezza irripetibile. Poco fuori dal cancello, gli altri stavano a rincorrersi in mezzo alla vigna del vicino e invece lei si avvicinò con la solita mossa di strusciarsi addosso a un sasso per poi venire a chiedere quello che le serve: “E allora, Perla, lo devo proprio prendere per buono “oik!”? Ma sei sicura d’averlo scritto per bene? Ti vuoi far toccare la coda, e vero?” Ci fu il solito ciangottio che fanno loro quando vogliono farci qualche tenerezza ma dopo quell’attimo non ci fu più niente di consueto. Prese a trottare fuori del cancello più grande e s’infilò decisa per il viottolo rallentando solamente quando voleva rendersi conto se le venissi dietro come evidentemente doveva essere. E pareva proprio stabilito che il fatto d’allontanarci di molto dai soliti posti, d’imboccare in su dentro l’antica proprietà di Delfino e seguitare in mezzo ai filari andando svelti come non si faceva mai doveva essere tutto legato al mistero di “oik!”. “Perla, patata non siamo ancora arrivati?” Le sentii un altro mormorio e col fatto di seguitare il trotterello voleva dire che ce n’era ancora un altro po’. E alla fine quel posto lo riconoscevo. C’era rimasto ancora qualche spezzone di tronchi di colonna romana; li facevamo rotolare con mio cugino quando eravamo ragazzini. Lei però era arrivata vicino al troncone di muro della casa vecchia crollata e mi manteneva il musetto puntato addosso con gli occhi belli larghi: “Dove dobbiamo andare adesso, eh?” “oik!” doveva stare là sotto; dove teneva le zampette belle ferme ma pure con la fretta di portarmi con lei. C’era una buca non tanto larga ma dal nero che si vedeva era bella profonda: “Mi vuoi portare là dentro? “oik!” sta là?” “Cru” fu la sola risposta; si buttò dentro ma poi faceva un miagolio strano, probabilmente ferma in un punto là sotto in mezzo allo scuro e insisteva: “Miew miew!” “Si eccomi, scendo”. Pareva che le volpi scavandosi le tane avessero fatto crollare lo strato di terra che stava sopra le fondamenta e così s’era fatta una specie di galleria: “Eccomi; dove stai patata!?” C’era come qualche cosa che mi risucchiava il suono della voce; l’aria pareva chiusa, il cunicolo era stretto da poterci passare pure a fatica e seguitavo a non vederci niente. Lei chiamò ancora due volte e adesso lo stesso miagolio sembrava una richiesta d’aiuto, così non feci caso al pericolo e messo carponi mi buttai ancora più giù. Al fondo di quella discesa c’era un cavo più largo e mi potei mettere seduto. Forse quella spera di chiarore che finalmente veniva da sopra mi diede l’effetto di respirare meglio. Da mezzo al cono dell’ombra fece d’avvicinarmisi e faceva fusa com’era normale quando chiede d’essere carezzata sulla testa. “E allora, che cos’è questo “oik!”?” Al limite dello scuro girandomi la spera di luce prese qualche cosa che rimandò un luccicore strano, soprattutto per venire da dentro un buco come quello. Presi il telefonino, schiacciai il pulsante della luce e, si, quello poteva essere anzi sicuramente era “oik!”. Succede che certe storie all’inizio sono vere, poi diventano chiacchiere di bettola quando l’oste deve chiudere e a casa ancora non ci vuoi ritornare e alla fine servono solo a far venire sonno ai ragazzini la notte di Natale. Allora dovevo essere stato fortunato perché quella roba l’avevo sentita raccontare da piccolo proprio sotto Natale dentro l’osteria di mio zio Vincenzo. Erano anni che gli veniva da ridere quando raccontavano la storia di Pacomio detto Smerogna che scappò dalla macchia della Faiola, lasciò fregati gli altri briganti e se ne venne a seppellire il grosso del tesoro qua dentro alla valle. Con tutti gli scassi e le arature di terra che avevano fatto per oltre duecento anni di qua e di là sopra e sotto, n’avrebbero trovati quintali e quintali di quell’oro, argento, e gioielli e invece non era uscito fuori niente; e poi Pacomiaccio da solo, di nascosto ai capi e agli altri come faceva a portarsi tutto quell’accidenti? Bene, in ogni caso adesso il fatto era incontrovertibile e “oik!” stava proprio là sotto. E mano a mano che il raggio dal telefonino se n’andava avanti usciva fuori l’abbaglio dei cassoni pieni di scudi, fiorini e marenghi d’oro; dai resti dei sacchi tarlati venivano fuori le punte dei diademi, dagli orli cascavano le catene di pendenti e monili ma alla fine la sorpresa più grande erano i fili di perle attorcigliati non si sapeva più quante volte attorno a semplici bastoni di legno. Quando sentii ancora di non riuscire a respirare bene m’accorsi che stavo seduto per terra e lei mi strusciava la testolina addosso alla spalla: “Questo “oik!” lo dobbiamo prendere noialtri?” Non c’entrò la sensazione d’affanno che pure c’era; però seguitava a mettersi fissa davanti l’uscita come se dovesse farmi venire un dubbio: “Ma questo “oik!” allora non è nostro? L’“oik!” nostro dove sta?” Perché dovevo sentirmi tutta quella disperazione? Dovevo risalire; d’aria cominciava a essercene poca per davvero ma l’urto di nervi per la schiena non dico mi bloccasse proprio del tutto però faceva impedimento: “Portami fuori tu allora; vai avanti e io m’arrampico appresso”. Era poca la salita da fare di traverso però non mi fosse venuta incontro la luce il peso che m’era venuto addosso m’avrebbe fatto mollare le braccia. Appena fuori dalla buca mi si mise seduta vicino e stette un bel pochetto a leccarmi il dorso della mano: “Grazie bella; ma adesso non si sa proprio per davvero quello che si deve fare con “oik!”. Tu non mi vuoi dire niente?” Mi chiese di toccarle la testa con le solite mosse ma mi toccò alzarmi subito perché scappava avanti verso il fontanile dove tanti anni prima avevo visto Daniela bagnarsi i piedi con la gonna tirata su. E un po’ fui pure contento perché quel passo svelto in mezza salita mi liberava il fiato e a quel punto, ferma con l’acqua che ci scorreva dietro e la vista sull’oliveto vecchio e la parte larga della valle mi guardava e guardandola fissa pure io m’è parso di capire tutto il discorso che c’era scritto dentro quel benedetto “oik!”. Le bestiole infatti sono parche. Adesso c’è questo covid, aveva voluto dire certamente col dittongo oi, e voialtri che ci guidate sulla terra vi trovate completamente allo scoperto; v’accorgete dopo tanto tempo di come siete sprovveduti di fronte al destino. Non avete ideologie che bastino, pensieri che convincano e siete ancora fissati col prendere quello che vi serve senza restituire quello che dovete. Però noialtri, mi parve il succo del discorso, vogliamo vivere. La k è la lettera più forte che la natura può esprimere e con l’esclamativo appresso il modo di tradurre non poteva essere altro che un ultimo grido di resistenza senz’argomenti da ribattere in contrario. Prendetevi i tesori che vi piacciono tanto e fate in modo di farci seguitare a vivere come dobbiamo perché ci spetta. L’angustia mi si tolse da dosso ai polmoni e con quella passata di fresco guardai ancora il visetto di Perla; gli occhi liberarono le lacrime: “ Patatoziola, io proprio non lo so come va a finire; però mette conto di dire “oik!” ancora un’altra volta. Voialtri insistete da tanto tempo e noialtri vi facciamo morire, specie dopo specie. Però dire “oik!” è una cosa giusta; ed è necessario. “Oik!” fino alla fine del mondo, con la stessa speranza che ci mettete voi.

(Un caro ricordo per Marisa Bianconi che voleva tanto bene a mia madre)

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