Titoli di Viaggio
Diario delirante di un’insegnante ai tempi del Coronavirus
Quando e come noi stabiliamo un rapporto deliberato e consapevole con le cose? O sono le cose a imporsi nella nostra relazione con la realtà?
Chissà se anche i peluches possono essere considerati cose!
Domenica ai tempi del Coronavirus.
5 aprile
Un incipit abusato, oserei dire epidemico, nella nostra cronaca.
Esco secondo l’unica evenienza tollerata dallo stato di necessità: vado a fare la spesa ad un isolato di distanza. Devo solo passare al guado il viale sommerso nell’umore denso e represso del suo silenzio, prima di ancorarmi alla lunga coda timoniera di un corteo muto di mascherine. Desisto. Viro all’indirizzo di un punto vendita al dettaglio, “Il negozietto”, allungando il giro col vantaggio di alleviare la pena di quella sosta, sulla divaricata prospettiva di una rondine fatta di uomini, avvinta al suolo dalla vischiosa gravità dei tempi di attesa davanti al supermercato.
Respiro.
C’è tutta la forza eversiva della primavera oggi nell’aria.
E questa luce che si espande sulle cose, le attraversa, le esalta, entra nell’anima e scardina l’impalcatura dei pensieri. Li ordina secondo le priorità aleatorie della memoria, con il riscatto delle cose dal dominio vulnerabile e fallace dei sapiens e la loro rivincita, inesorabile.
L’epifania dei balconi lascia il richiamo variopinto dei panni stesi, le nuvole discrete e timide dei gerani, la danza di un passero sul davanzale dirimpettaio che si esercita nei suoi quotidiani virtuosismi di salti, beccheggi, voli.
Ci sono insondate profondità domestiche nell’ombra, voci, canti e ritornelli che esondano e avvolgono con il ritmo della vita di un tempo, quella sì, remota.
Quel tempo dell’infanzia di cui ritrovo i profumi, i colori, con la percezione quasi tattile della loro consistenza sentimentale.
Le cose…
Ci vengono restituite, o meglio, mostrate. E’ un’elargizione disinvolta di sé stesse, fatta di cortesia indulgente (o forse semplicemente noncurante?) lontana dal nostro affanno, dalle nostre emozioni che spezzano il fiato e arrestano il passo.
Una giraffa, una giraffa di pezza, mi sfiora il naso col muso maculato, mentre con la mano salda nella mano di mio padre torno a casa una domenica mattina.
Con me il calore morbido del peluche e la promessa dolce della sua propaggine di cioccolata, il primo uovo di Pasqua di cui ho memoria: riconciliazione domestica!
Le cose, capaci di tirannica consuetudine e di inopinabile provocazione sovvertitrice.
Ed ecco che la mia giraffa si arruola nell’esercito di tanti altri straordinari peluche contemporanei, i peluches empatici dei miei alunni…
C’è fila anche davanti a “Il negozietto”. Aspetto. Sono in compagnia.
Venerdì, prima della domenica.
Nelle sequenze del colossal nostalgico e neorealistico della domenica si è insinuato un ricordo di storia recente, assai prossima.
E’ ormai da quasi un mese che i miei giorni di maestra sono orfani di scuola, di quella scuola fatta di aule, di banchi, di lavagne, di cattedra, di polvere di gesso, semplicemente di polvere…Giustificata dalla chiassosa presenza dei bambini, spesso indomabili e sempre impegnativi…Del loro bisogno di essere felici e di divertirsi (diritto sancito e talora disconosciuto nella pratica canonica di una certa didattica paludata e pretenziosa), che i titani della pedagogia si avventurano a coniugare con il civilissimo diritto allo studio…Ambizione alta, impresa difficile e disperata, ma non impossibile.
Di certo più alla portata in una condizione di supposta “normalità”, come diremmo e diciamo ora, “in presenza”!
Mi trovo in uno stato di dolorosa astinenza dalla fisicità energica e vitale della mia classe, una quarta di scuola primaria (solo un decennio fa avremmo detto elementare; chissà perché la semplicità debba essere per molte voci autorevoli fonte di imbarazzo), nell’increscioso compito di ricostruirmi un’identità nuova di insegnante; di acquisire titoli e crediti didattici diversi; di delineare i nuovi contorni della fisionomia di un altro rapporto educativo con i bambini, con la scuola come luogo virtuale del sapere, con la distanza spazio – temporale di luoghi vissuti, di un presente da raccontare.
Raccontare per non morire.
I miei alunni e i loro peluche.
Nelle trame impercettibili, ma tenacemente dispotiche di un’esistenza soggetta all’incubo della pandemia da Covid-19, noi insegnanti siamo invitate ad una videoconferenza organizzata a sorpresa dai genitori, per un saluto comunitario!
Da giorni avverto sotterranea la pressione di mamme e papà per lezioni online.
Finora le due maestre si sono limitate a trasmissioni di compiti via mail, su WhatsApp, hanno ascoltato al telefono i loro alunni, fornito indicazioni di lavoro, semplificato esercizi, personalizzato interventi, tranquillizzato e soccorso genitrici sull’orlo di una crisi di nervi, corretto compiti con una meticolosità estenuante che sfiora il parossismo… Sono stati forniti documenti specifici in video. Le quotidiane incursione sul registro elettronico, mannaia inesorabile di consegne, tracciano questo processo ormai completamente svincolato nella prassi da un canonico e convenzionale calcolo dei tempi d’insegnamento…
E come se ciò non bastasse, le due incaute attrici di questa commedia si avventurano nella video parodia dei loro drammi domestici tra libri e fornelli, nel tentativo di sollevare gli umori propri, dei bambini e del loro stremato parentado.
Ma non è ancora sufficiente, sua maestà la Didattica a Distanza, impone il sacrificio di energie sugli schermi delle lezioni online!
Apro, invocando la clemenza di chi legge, una mesta parentesi sulle mie riserve costituzionali per il ricorso alle connessioni telematiche come modalità onnicomprensiva di indagine e conoscenza.
E’ chiaro che la diffidenza nasce anche dal modesto grado di confidenza nell’impiego dei mezzi informatici…
Tuttavia voglio esercitare un diritto residuale alla libertà d’insegnamento, rivendicando l’efficacia e le prerogative di un’immersione incondizionata nella materia, negli umori, nei colori, tra penne, quaderni, voci, gesti, contrasti, sorrisi…Un altro delirio!
Ciononostante ci provo, mi accosto con timore reverenziale all’omeostato, distolgo fulmineamente lo sguardo dall’attrazione fatale dello schermo e nei meandri delle icone e della barra degli strumenti cerco la mia rotta di internauta.
Sono nel labirinto della rete. Navigo a vista.
Mi iscrivo a un corso online sulla didattica a distanza.
Prendo appunti, traccio algoritmi… Sogno i silenzi degli eremi benedettini.
Inveisco contro l’abominio di anglicismi che imperversa tra una sequenza operativa e l’altra (quale lingua volgare ci salverà da questo vituperio? Dov’è finito l’idioma gentile?), che sottolinea la specificità di percorsi, che li denomina, che irretisce la pratica di insegnamento nelle griglie della valutazione di standard cognitivi e nella fiscalità della certificazione.
Conseguo un attestato che metto nel cassetto.
Ai posteri la valutazione degli esiti di una simile impresa.
Comunque io e la mia compagna di viaggio, la maestra di matematica, siamo puntuali all’appuntamento per il meeting fissato a venerdì 3 aprile, ore 16:30.
Eccomi in attesa di fronte al computer, con rispettosa condiscendenza all’invito, curiosa, ancora con qualche riserva sul sodalizio con il mezzo.
Si apre finalmente la schermata e…
Eccoci, io e loro, i bambini. Io, loro e i peluches!
Li vedo, vivono nel puzzle dinamico di sorrisi, richiami, mani agitate in segno di saluto.
Li riconosco indomiti come sempre, diabolicamente anarchici.
Mi dicono che vogliono tornare a scuola, che desiderano stare con i compagni, che gli mancano la dolcezza della collega e le mie urla telluriche, che hanno visto il video sulle nostre parodie domestiche e si sono divertiti tanto, l’hanno scritto anche nel tema.
Si cercano.
E mostrano i loro peluches, grandi, tondi, piccoli e buffi, una propaggine di sé stessi! No, sono qualcosa di più, li abbracciano come solo si può stringere una persona cara, un riferimento certo e affidabile nella nuova emarginazione domestica. Un approdo sull’isola di un tempo sospeso.
Una folgorazione e una ferita, per me, sgomenta.
Penso: i peluches e i loro dieci anni di vita! Straordinaria strategia di sopravvivenza in regime di cattività.
I peluches, il mezzo attraverso il quale ho capito di poter entrare sommessamente nel loro mondo, testimone di un bisogno esistenziale di affidamento, di ascolto, di intime corrispondenze, di affetti, complice nel gioco della fantasia che sovverte l’ordine eteronomo della realtà.
I peluches, il segnale inviato dell’urgenza di accorciare distanze, di ritrovarsi in un comune sentire; la chiave per tirare fuori dall’emergenza un’opportunità, quella di liberare pensieri nella bellezza sempre inedita delle relazioni, perseguita senza criteri.
E’ la forza della bellezza come processo che si evolve dalle storie dei peluches e vive nel suo mistero, con semplicità, equilibrio e quieta grandezza.
Vedo commossa le bambine che per la circostanza sfoggiano look strepitosi, con al fianco Bunny, Orso Bruno, Picchiotto, Chiocciola. Dietro il velo di questa innocente civetteria nascondono un’aria assorta, una consapevolezza insospettata del rimpianto silenzioso di una prossimità fisica con gli altri che non c’è. E’ una piccola ferita, è fragilità e voce del cuore, è desiderio.
Lascio la videoconferenza portandomi dietro questa emozione, questo inatteso turbamento di fronte all’esposizione di solitudini vulnerate, la mia, la loro, quella dei peluches riesumati dall’oblio.
Bisogna ributtarsi nella mischia, mi dico, tornare ad essere squadra, interpretando appassionatamente la forte metafora sportiva del rugby, lanciare la palla ovale indietro!
Perseguire la meta.
Lunedì 6 aprile
Il trascorrere dei giorni in una trincea di inerzia forzata ha dissipato entusiasmi e motivazioni, demolito interessi, spento curiosità.
Tutto gradualmente si stempera e subentra la rassegnazione in uno stato silente e complice di straniamento.
Vale per gli adulti, vale per i giovani, vale per i bambini.
E’ come perdere i contatti con la realtà. Bisogna rompere ogni indugio e demolire il muro di nebbia anestetizzante. Perché questo sia possibile, cosa va fatto?
Prendo di petto il primo nemico a portata di mano e di stanza, e mi trovo inesorabilmente a tu per tu con me stessa, con le mie resistenze, i miei crucci, i miei limiti, le mie debolezze di insegnante e di persona.
Qual è il tuo compito? Mi chiedo.
Come pensi di fornire “un’educazione di qualità”? Che mezzi puoi utilizzare?
Quanto sei disposta a mettere in discussione il tuo modo di agire, uscendo dalla tua zona di conforto, per tradurre nella pratica di insegnamento questo imperativo morale ed etico?
Lo spaccato di vita dei bambini accessibile online con la videoconferenza ha avuto un’efficacia dirompente, ha permesso che si presentasse l’occasione, ancora una volta, di valutare la soggezione dell’uomo alle cose o di come le cose, nostro malgrado, stabiliscano con noi un rapporto.
Così ancestrale è il bisogno di trovare radici, di rifondare l’esistenza quando è spogliata delle sue abitudini, quando i gesti consueti smarriscono la loro natura e l’identità di ciò che è stato e di ciò che siamo stati si perde, quando la liturgia del giorno muore.
Occorre orientare il nostro impegno a una vita nuova, con i suoi riti. Cos’è l’uomo senza riti?
Scandire tempi nuovi, eleggere una nuova agorà.
A questo punto è inevitabile che io individui le migliori possibilità di stabilire rapporti a distanza con i miei ragazzi, senza velleità, accostandomi umilmente al compito di spendere energie, idee, sentimenti, frammenti di vita per incardinarli nelle fondamenta di un nuovo costume. Senza riserve, senza risparmio, ma per il piacere di dare e di ricevere, col solo pudore di preservare l’onestà delle intenzioni.
Una cosa nuova sta per entrare, questa volta discretamente, nella mia vita.
L’esercito dei peluches è in marcia, conquista e riempie gli spazi, raggiunge siti, instaura il regno della fantasia.
Sapere aude!
Chiamo la collega, il rappresentante di classe, chiediamo la sua assistenza per l’accesso in piattaforma, organizziamo gruppi di allievi, fissiamo il calendario dei meeting e divulghiamo l’agenda: martedì e mercoledì lezioni on line.
Smanettamenti serali di consolidamento e sviluppo di competenze informatiche.
Una capitolazione? No.
Una buona confidenza telematica.
Una naturale connessione: io, i bambini, i peluches, il computer, la fantasia, la solidarietà.
Un consorzio di intenti senza orpelli, animato dall’appassionata partecipazione di genitori, alunni insegnanti, figli degli insegnanti, ciascuno presente con le sue risorse ed abilità.
Qualcuno avanza perplessità e si giustifica per non poter intervenire, ci sono problemi in casa, il papà è in isolamento, la figlia maggiore al secondo tampone, Emma non sta facendo i compiti, è la mia ombra, è un periodo un po’ così.
Può capitare a volte, di ritrarsi nel guscio della propria sfera privata, avvertendo le richieste altrui come indebite ingerenze e intrusioni intollerabili nel dramma domestico della sofferenza.
Martedì 7 e mercoledì 8 aprile.
Ci sono tutti gli invitati tranne uno, che non riusciamo a includere nel processo, che si sottrae ai ripetuti tentativi di coinvolgimento. Un problema da risolvere. Grosso.
Anche gli altri dichiarati renitenti alla leva rispondono puntualmente all’appello.
Presenziano anche loro, i peluches, insistono perché i loro amici li presentino.
Delfy, un delfino enorme e sorridente.
Oscar, un pappagallo serioso ed austero.
Pannocchia, un pinguino reale col suo collare d’oro.
Alex, il coniglio sornione che distratto cade continuamente dalla scrivania di Camilla.
Squaletto, il mostro marino dall’aria conciliante di Enrico, un ometto in miniatura, che racconta fiero di aver ricevuto quell’esemplare acquatico di centodieci centimetri quando lui, più piccolo di ora, ne misurava solo novanta…
Tigro, una tigre silenziosa e sbiadita, perché è vecchia, racconta Diana: gliel’hanno regalata sei anni fa e ha perso il colore delle strisce del suo mantello.
Però se si arrabbia ancora ruggisce.
E altri ancora conquistano la ribalta…Alessandro si schermisce dissimulando imbarazzo. Non gli funziona l’audio, sente, ma non può parlare.
“E il tuo peluche?” Gli chiedo.
Risponde con la chat. Leggo: “Non celo”.
Mi chiedo che cosa mai si preoccupi di non nascondere Alessandro. Poi capisco: non ha il peluche!
Rare, come queste, sono per un’insegnante d’italiano le occasioni di sentirsi così profondamente gratificata.
La lezione del mercoledì fluisce con ancora maggiore leggerezza e divertimento.
Gabriele fa la giostra sulla sua poltrona, Beatrice a intervalli regolari finisce in immersione sotto la scrivania e riemergendo dissimula un faticoso processo di masticazione.
Alessia frena la sua vivacità solo quando mostro le slide delle illustrazioni che ho preparato sul racconto del Minotauro, a corredo di esercizi di analisi grammaticale e di sintassi, un incubo tra mito e logica!
La foto luminosa di un ciliegio in fiore è il saluto alla classe.
Sulla mia spalla è accoccolato un piccolo e pacifico orsetto bruno, il peluche di mio figlio da bambino.
L’ho chiamato Zoom.
Tutto accade, in questo nostro esercizio di quotidiana resistenza al dolore, anche la sconfitta del male.
Sento di nuovo il muso della mia giraffa di pezza sotto il mento.
E la vita ritorna.
Peregrinazioni di una maestra folgorata sulla via della Didattica a Distanza dalla fantasmagorica apparizione di un esercito di peluches, i custodi dell’Arca.
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