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Megisti

Autore: Giovanni Di Sarno

Megisti, ovvero l’isola di Kastellorizo. Giugno 1998.
Kastelorizo è un’isola greca situata nel sud est del Mar Mediterraneo a circa 2 km al largo della costa meridionale della Turchia, ed è caratterizzata da alte montagne che si immergono a strapiombo nel mare. L’agricoltura dell’isola è limitata alla coltivazione di olive, uva e fagioli e si estende su un territorio di 11,98 km², circa un quarto se comparata a Ischia con i suoi 46,3 km². La differenza più evidente tra le due isole però, è il numero di abitanti che le popolano; a Kastellorizo vivono circa 220 anime e tra queste il mio vecchio amico Acapus. La nostra amicizia era nata rapidamente alla fine degli anni 70, quando Ischia sembrava fiorire in ogni stagione, complice, naturalmente, la giovane età e le preoccupazioni che proprio non riuscivano nemmeno a lambire le periferie dei nostri pensieri. Acapus cantava e suonava la chitarra divinamente, era capace di eseguire brani in inglese oltre a quelli di cantautori come Guccini, De Andrè, Dalla, Daniele o De Gregori. Conservo più di un ricordo quando, al tramonto, accanto a un falò improvvisato sotto il fianco delle Pietre Rosse di Cava dell’Isola, ci faceva sognare. Da sette anni si era trasferito in Grecia, sull’isola dove Gabriele Salvatores nel 1991 aveva girato il film Mediterraneo, gestiva un piccolo bed & breakfast nei pressi del porto e il tempo libero lo dedicava, come sempre, alla pesca subacquea. Era la seconda volta che mettevo piede sull’isola, e Acapus non mi fece mancare una calorosa accoglienza. A bordo della sua Piaggio 150TS mi scarrozzò per l’ampia baia verso la punta di Megalos Niftis, dove a pochi metri dalla scogliera si affacciava la sua casa. Dal freezer fece capolino una cernia di due chili mentre dall’orticello sul retro sbucarono baldanzose delle insalatine novelle. Sul tavolo aspettavano impazienti un pezzo di “feta” succoso e una bottiglia ghiacciata di “retsina”, ansiosi anch’essi di unirsi alla festa.
Qualche giorno dopo mi proposi di esplorare la costa a est, nei dintorni di Cape Karidia, dove secondo il mio amico si potevano ammirare i resti di un insediamento bizantino risalenti al 1440, l’anno in cui l’isola fu occupata dal Sultano mamelucco d’Egitto, al-Azīz Jamāl al-Dīn Yūsuf. Accettai grato l’offerta di Acapus di utilizzare la barchetta a remi di un suo amico, il mare era calmo e costeggiando avrei abbreviato sensibilmente il percorso. L’imbarcazione di vetroresina misurava circa tre metri, panciuta con le sponde basse e sbucciate, le fiancate mostravano chiazze multicolore che evocavano i foschi test di Rorschach, e all’interno, due remi nani accostati nel cantuccio di prua, che sembravano  volersi riscaldare l’un l’altro. Insomma non posso proprio dire che avessi ricevuto una buona impressione al primo incontro con Dimitria; questo il nome dipinto in giallo ocra che mi pareva di scorgere sullo specchio di poppa. Doppiai la punta sassosa del Mandraki Harbour, si intravedevano le croci del camposanto che spuntavano sbilenche da dietro i bassi cespugli. Sulla sinistra, con lo sfondo della costa turca, distanti un paio di kilometri le isolette disabitate di Bayrak, Heybeli e Kovan si fronteggiavano come giocatori di tressette col morto. Vogavo con calma mentre le pareti di roccia a strapiombo mi scivolavano a fianco, l’unico scalmo in dotazione cigolava allegramente nel suo alloggio generando una cadenza simile a quella di un metronomo. Assorto nella contemplazione del paesaggio non mi ero accorto che sul fondo della barca si era accumulata una ragguardevole quantità d’acqua, pareva anzi, che aumentasse progressivamente. Era proprio così. Potevo chiaramente stimare l’innalzamento del livello a occhio nudo. Avvertii una fitta di paura sotto lo sterno che presto si diffuse in tutto il corpo, fino a penetrarmi il cervello. Devo confessare di aver sempre nutrito un timore reverenziale nei confronti del mare, una sorta di soggezione psicologica che mi porto dietro sin dai tempi in cui, ragazzino, pescavo pinterrè tra gli scogli sotto i bastioni della chiesa del Soccorso di Forio. Mi girai intorno con occhi speranzosi. Nulla. Non c’era nessuno che potesse aiutarmi, il silenzio era totale, nemmeno un rauco grido di gabbiano alterava la quiete che mi avvolgeva. Preso “dai turchi” cominciai inspiegabilmente a cantare “‘O Sarracino”, di Renato Carosone. Inizialmente in sordina, il tono stridulo del mio canto si intensificò gradualmente e, benché privo di garbo, facevo la mia bella figura sotto il sole del grande Mediterraneo. I bordi della barca erano a pelo d’acqua, sul punto di far tracimare dentro quello che serviva a darmi il colpo di grazia, quando alle mie spalle udii una voce. Un vecchio pescatore ritto sulla prua di una lancia mi stava gettando contro un canapo, mentre sotto la barba gli si scorgeva un sorriso canzonatorio.
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