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Quale Dio?

Pubblichiamo con molto interesse due momenti di alta riflessione che due sensibilità come Don Aldo Antonelli e Padre Ernesto Balducci, ci donano aiutandoci a capire in quale società viviamo e come cercare di essere coerenti con le nostre convinzioni profonde”.

Andrea Cantaluppi.

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“DIO”!

Una parola pericolosa e molto equivoca.

Una parola che dopo anni e anni di uso strumentale ed osceno, dovrebbe essere sottaciuta per altrettanti anni, come ben ammoniva don Primo Mazzolari.

Un nome impronunciabile, fino quando non comincerà a fiorire sulla terra il fiore della giustizia e della solidarietà, come predicava don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia: « Bisogna proibire di parlare di Dio nelle chiese. Per qualche secolo. Fino a quando non ci sarà più un uomo, al quale non sarà permesso di vivere da uomo».

Ma per questa volta ci si perdoni la deroga.

C’è come un filo rosso, sotto tensione, che percorre tutta la narrazione biblica e, direi, la storia del fidanzamento tra Dio e gli uomini; si tratta del grido di salvezza strozzato in gola ai popoli come invocazione e proclamato da Dio come offerta. I pilastri fondanti di questa architettura sono l’autopresentazione di Dio a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido… Sono sceso per liberarlo” (Es.3,7-8) e il prologo che Giovanni prepone al suo Vangelo: “Verbum caro factum est et habitavit in nobis. Colui che è ‘la Parola’ è diventato un uomo e ha vissuto in mezzo a noi” (Gv 1,14).

Due tralicci che tengono alto il discorso di una trascendenza immanente che nel corso dei secoli ha spezzato, da una parte, il gioco evasivo in cui la religione vorrebbe soggiogare un Dio insequestrabile e, dall’altra, ha infranto le catene della necessità con le quali il potere irreggimenta e paralizza il fare e l’operare degli uomini.

Il Dio della cura e della premura, che va in cerca dei disobbedienti nel giardino dell’Eden, che si fa protettore del fratricida, che infrange l’impero del faraone e diventa bastone di viaggio per il popolo nel deserto; il Dio che distoglie il suo volto dall’odore degli incensi e dal sangue dei sacrifici, mentre s’impietosisce del popolo assetato e fa piovere manna per la sua fame; questo Dio  non può che immedesimarsi nell’uomo per il quale egli, semplicemente, “È”!

L’Incarnazione (Mistero principale della Fede), come suo farsi carne, e l’Eucarestia (Sacramento della stessa Fede), come suo farsi pane, sono una necessità-necessitata del suo “dover essere” e non un optional della sua “benevolenza”.

Sì! Perché l’amore per la bibbia è «questo sguardo con cui Dio si prende cura dell’alterità umana, facendole spazio e sostenendola; è il movimento di discesa con cui, andando incontro all’altro, invocazione di pane e di perdono, l’alterità divina inverte e converte la sua alterità in prossimità e la sua trascendenza in vicinanza; è l’irriducibile differenza che si rivela come ostinata non indifferenza nei confronti di chi, povero e nemico, è attesa di vita e di amicizia» (Carmine di Sante: L’io ospitale; p.12).

Contro questa narrazione si pone, nel segno opposto dell’indifferenza e del disprezzo, l’”Homo Oeconomicus”, autocefalo e senza relazioni, autofago e onnivoro, che tutto consuma, trasformando in merce e in merce di rifiuti, persone e cose, valori e affetti, progetti e speranze.

Avvezzi come siamo a incorniciare l’“Evento-Incarnazione” nella composizione agropastorale del presepe, nessuno stupore viene più a farci visita; ancor meno ci tocca l’ondata rivoluzionaria per cui storia e trascendenza, finito e infinito, frammento e totalità, umano e divino sono una cosa sola. Tutto al più ci facciamo invadere dalla tenerezza nostalgica di un mondo-non-più. In questa lettura bucolica e arcaica del Cristianesimo risiede la sterilizzazione dell’evento, incapace ormai a sovvertire i loschi connubi tra spiritualità e mercantilismo, universalità e localismo, filantropia e xenofobia, amore e odio. Sono, questi, matrimoni funzionali alla deriva liberista di una economia senza anima e di una politica senza etica, in Italia prima e più che nel resto del mondo.

Aldo Antonelli

 

«La suggestiva narrazione di Mosè che, dopo avere spezzato le pietre – il popolo, mentre egli parlava con Dio si era costruito il vitello d’oro -, se ne ritorna alla sorgente, al Dio dell’alleanza per invocare perdono ed avere una nuova legge, suscita immediatamente una analogia che non può non diventare un discorso di severa condanna per noi che ci diciamo e siamo popolo di Dio. Se scendesse ancora una volta il profeta dalla montagna e venisse verso di noi con la legge, dovrebbe spezzare di nuovo le tavole perché questo popolo di Dio che ha eretto templi, ha scritto biblioteche intere sul mistero di Dio però l’ha fatto per potersi meglio consentire la costruzione del vitello d’oro. Ditemi voi se non c’è il vitello d’oro nelle piazze della società evoluta di oggi, la quale ha costruito intorno al vitello d’oro una cintura di armi spaventosa per la sua difesa.

Questo è, seguendo il filo dell’immaginazione messomi in mano dalla Scrittura, lo stato delle cose. Il dramma è che noi continuiamo a parlare di Dio – eccoci qui anche oggi – noi continuiamo a girovagare per il mondo con i suoi simboli, con le sue tavole, mentre indisturbata, sicura di sé la società danza attorno al vitello d’oro, unica vera onnipotenza, quella che in un piccolo sgarro mistico il padre dell’economia moderna chiamò «la mano invisibile», la logica del profitto, una specie di Spirito Santo invisibile che tutto fa e tutto può. E questo popolo, a diversità di quello delle origini che fu oggetto delle ire di Mosè, non è funestato da nessuna ira, anzi gli esperti, gli scribi e i pontefici, sono, tutto sommato, benevoli, spesso anche complici di questa danza attorno al vitello d’oro. Ecco perché tutte le nostre creazioni portano in sé almeno qualche segno del culto del vitello d’oro. Perfino gli sforzi – come quello che noi oggi generosamente facciamo – di creare una Europa unita si poggiano sulla logica del mercato onnipotente. Ogni volta che la nozione di Dio è contaminata dal culto del vitello d’oro, occorre risalire la montagna per avere di Dio un’altra definizione, perché Dio si contamina nelle nostre contaminazioni. La Sua immagine, la Sua nozione non è una nozione, una immagine pura, estranea ai miasmi del nostro esistere. Attraverso i concetti, anche i più limpidi e cristallini, passa il fiato malefico delle nostre passioni. Quando si elaborò la mirabile teologia sulla Trinità, sul dogma si posò la spada di Costantino che disse: «chi non ci crede, lo ucciderò!». Vuol dire che c’era, perfino in quella teologia, una specie di omogeneità allo spirito di potenza. E difatti, una volta chiuso il mistero di Dio negli alti logaritmi teologici, chi ne poteva parlare? Soltanto gli esperti. Il Dio di Gesù Cristo fu annunciato da degli analfabeti i quali non avevano nessuna preoccupazione di spiegare che Dio è Uno in Tre persone uguali fra loro, dato che nessuno si preoccupava di interrogarli su questa uguaglianza. Quel messaggio era un messaggio di salvezza e non la rivelazione di arcani segreti o di arcane dottrine. Poi, invece, è avvenuto che questa dottrina sulla unità e trinità di Dio si è resa raffinatissima, tanto che chiunque ne osa parlare senza i titoli di studio adeguati incappa in gravissimi errori. Allora, per evitare l’errore, si impedisce la predicazione, o meglio, si monopolizza. Avvenne, nel cuore del Medio Evo, che quel santo dei santi che è Francesco d’Assisi potesse, sì, andare a predicare, purché non parlasse di Dio, dato che di Dio potevano parlare soltanto i «clerici», gli esperti, e lui era un laico. Francesco, con una specie di inconscia astuzia, tutta evangelica, predicò la pace, tema su cui i clerici lasciavano fare».

(Ernesto Balducci – Il Vangelo della Pace; Vol. 1; pag. 189-191)

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